lo scarabeo che caccia l'aquila

mercoledì 9 febbraio 2022

UNA STORIA DEL PARADISO

DUNNE – ZA I Dunne-za, o Indiani Castoro, vivono della caccia nell’area del Peace River, a cavallo fra la British Columbia e l’Alberta. I Dunne-za credono che le storie vivano nelle vibrazioni del parlato con cui vengono descritte. Vivono nella memoria condivisa da dove le richiama il cantastorie e, anche, dove lui o lei la ripongono. L’inizio o la fine di una storia dipende dall’umore di chi la racconta e di chi l’ascolta; nella stessa maniera si seguono i canoni convenzionali della caratteristica dei vari personaggi o delle vicende. Una storia prende corpo, simultaneamente, nel tempo reale del suo narratore e nel tempo leggendario in cui accadde. “Una storia del paradiso” è l’onirica trasposizione dell’universo Dunne-za in quello della Cristianità. Una storia nata nel sogno dall’incontro fra il narratore e suo padre. Dove il padre parla della nuova strada sulla parte destra della pista che conduce in paradiso. Rimane difficile stabilire se si tratta di una versione Dunne-za del Vangelo o di una versione Cristiana dello Sciamano che Controlla le Prede. Sicuramente, l’uccello del polo a guardia della porta del paradiso, appartiene all’antica tradizione sciamanica; così, come l’immagine di Dio che lascia cadere i messaggi nei foglietti di carta, è la risposta Dunne-za all’idea Giudeo-Cristiana di scrittura. UNA STORIA DEL PARADISO Mio padre parlava di un bellissimo posto. Diceva: “Figlio mio è molto difficile andare in paradiso, specialmente se infastidisci la gente bestemmiando, o rubando, o commettendo brutte azioni; queste cose non le devi fare. Per colpa di qualcuno, che va in giro raccontando frottole, molte persone si uccidono l’uno con l’altro. Questa gentaglia, raccontando fandonie che trasformano le buone persone in cattive, mente, fa del male; confezionando storie all’occorrenza, realmente trasforma le buone persone in cattive persone. Questa gente non può andare in paradiso. Gesù, il figlio dell’uomo che ci ha fatto, sapeva che se la strada fosse stata troppo ripida sarebbe stato troppo difficile raggiungere il paradiso. Per questo, quando lo uccisero, fece una buona strada. La fece più corta; la fece più facile per agevolare il passaggio delle persone buone in paradiso. Fece questa strada nuova con parecchie curve. E’ così che Gesù fece apparire la nuova strada. Quando Gesù andò in paradiso, dopo che lo avevano ucciso, pensò che sarebbe stato molto difficile se la strada fosse stata tanto ripida. Sul lato destro della nuova strada c’è una casa. Da lì, quando ci arriviamo, possiamo vedere un posto bellissimo. Dove vive colui che tiene le chiavi della porta, che detiene le prede e controlla gli animali: alci, caribou ed ogni altra cosa che vive sulla terra. Dalla casa, Gesù, bada agli animali. Vede ogni cosa che fanno gli uomini. Nulla Gli è nascosto, qualsiasi cosa uno faccia, lo sai di cosa parlo. Non va bene se una donna mangia la carne fresca in certi periodi, perché alle alci non piace. Le alci lo sanno. Le genti delle donne che lo fanno avranno povere alci senza grasso, difficili da scovare anche nei tempi in cui abbondano. Gesù guarda giù e vede, e rende difficile la vita degli uomini che fanno così. Dio ha mandato Gesù in questo mondo per sorvegliare la gente. Ed è per questo che Gesù fa così. In questo mondo, alla stessa maniera della piccola gente che vive nelle grotte di montagna, Gesù sorveglia gli uomini. Quella gente, simile a Gesù, vive sul lato destro della via del paradiso. Anche le alci sono così. Lo sanno cosa fa la gente della loro carne. La gente che tratta bene la loro carne non incontrerà alcuna difficoltà. Questo tipo di persone che si prendono cura della loro carne: quelle dove le donne che non dovrebbero mangiare carne fresca se ne stanno lontano dalla carne fresca mangiando la carne secca, uccideranno gli alci grassi e buoni da mangiare. Questo è il regalo di Gesù per aver trattato bene la carne. Dentro la casa, sul lato destro della strada per il paradiso, Gesù spartisce cose molto belle. Sul lato della casa, appollaiato in cima ad una pertica, c’è un uccello che osserva i morti di questo mondo mentre attraversano la porta. Lui, appena sono passati, comincia a cantare per dargli il felice benvenuto. Gli da un bellissimo benvenuto. Quando l’uccello incomincia a cantare lo sentono anche sopra in paradiso; e dicono: “Qualcuno sta arrivando; quell’uccello dice che qualcuno sta arrivando”, loro lo dicono. Mio padre parla così, quando racconta le storie sul paradiso. Mio padre parla così. Mio padre parla così. Dio, prima, fece il mondo. E’ così bello e potente che nessuno lo può guardare. Ci sono case grandi come città; case così belle che, qualche volta, anche la gente del paradiso prova timore ad entrarci. Dio le ha fatte per la gente buona. Ma, Dio, non abita neanche lì. Lui ha un posto solo per Lui stesso, più in su della cima del paradiso. E’ talmente bello che nessuno può guardarlo. E’ al di sopra delle persone che vanno in paradiso. Quando vede che qualcosa non va bene, scrive su un foglio e lo lascia cadere; viene raccolto, e Gesù spiega alla gente come si deve fare. Questa è la maniera che il Padre parla al Figlio, quando vuole che sia fatto come dice Lui. (Non può andarci di persona perché Lui è troppo bello.) Mio padre è solito parlare così. Quando una persona appare in paradiso, questa persona viene trasformata in una nuova persona. Gesù arriva in un lago bellissimo. Lui è come il Padre, lava la persona nel lago con le sue bellissime mani. Tutti vengono lavati nel lago, e diventano come gli uomini bianchi. In questo mondo gli indiani appaiono poveri. Lo sai come sono gli indiani. Ma in paradiso sono le persone più belle, proprio come quelle donne bianche nei giornali. Proprio come quelle donne bianche nei giornali. Gesù ti mostra tante fotografie di facce diverse. Tu scegli quella a cui vuoi assomigliare, ed anche i capelli. Nessuno, in paradiso, ha lo stesso colore di capelli. Del tipo di capelli che hai scelto, del tipo di faccia che hai scelto: tu sarai esattamente in quel modo. Dopo che hai scelto la faccia e i capelli Lui ti porterà in un’altra camera per scegliere i vestiti, i vestiti più belli che avrai mai visto. Mai più, dopo che ti sarai vestito, sarai il povero indiano che eri in questo mondo. Dopo questo, quando sarai pronto, Lui ti manderà dai tuoi parenti. Mai più, per te, ci saranno tempi brutti o dispiaceri. Sarai sempre felice. Per questo vi diciamo di essere buoni. I giovani pensano che si muore per sempre, ma non è così. Solo le persone cattive muoiono senza vedere la strada del paradiso. Quando muore una persona buona la sua anima va in paradiso, va dalla terra al paradiso attraversando la parte in mezzo. Si va in paradiso, quando si lascia per sempre questo mondo. L’anima parte nello stesso minuto in cui una persona muore, non ce la fa ad aspettare. Vede la buona strada del paradiso. E va nel bellissimo paese lì sopra. Per questo diciamo ai giovani di essere buoni. Per voi cattivi sarà dura. Mio padre parlava così. Ed è così.

LA CANZONE DEGLI ATKAN ALEUTS

ATKAN ALEUTS Il cantante e danzatore, in questa canzone Atkan, con la modestia di chi vuole diventare un cacciatore, descrive il fallimento della sua solitaria battuta di caccia col kayak. Ha inseguito un leone di mare e sta mestamente ritornando indietro ma, quando sente i tamburi che annunciano le danze di una festa, torna ad esprimere la sua gioia. Poi, appena ritornato, smette di cantare. E, quando quelli del cerchio seduti davanti a lui ricominciano a suonare il tamburo e a cantare, anche lui ritorna a ballare ed a comportarsi da cacciatore. LA CANZONE DEGLI ATKAN ALEUTS Furtivamente, senza dirlo a nessuno, oggi sono uscito con il mio kayak. Remando da solo, guardandomi intorno, ho visto un animale, un leone di mare emergere gagliardo; ho smesso di remare e, di fronte a quanto accadeva, ho iniziato a pensare. Ho pensato che, in un caso così, avrebbe fatto bene anche il peggior fannullone. Ho deciso di tirarlo fuori e, afferrata la lancia che tengo sulla poppa del kayak, l’ho sguainata e puntata dritta. Mi sono avvicinato, remando piano, è l’ho colpito ma non abbastanza forte da infilarlo. Nel panico è schizzato via. L’ho inseguito remando, l’ho colpito e ricolpito ma col solo risultato di spuntare la mia lancia. Purtroppo ero uscito in segreto per non farmi vedere da nessuno, ho guardato intorno per cercare qualcuno fino a che mi è venuto da piangere, se ci fosse stato qualcuno con cui piangere. Sono rimasto fermo lì per un po’, poi ho cominciato a remare indietro, e quando ho attraccato, ritornato da colui che amo sopra a tutto e che è anche l’assistente del mio spirito: il tamburo, ho cercato di ascoltare attentamente, ma non ho sentito. Ma – quando ho immaginato di ritrovarti – lì eri! Prendi il tamburo, spalanca la bocca e canta, ora!

IL MITO DEL SOLE

KATHLAMET CHINOOK La narrativa Kathlamet non racconta la nascita ma la fine del mondo. Colui che arriva al sole è un prosperoso capo che, anche se non in seguito ad una cerimonia ufficiale, è accettato come genero e, generosamente, gli vengono offerti un’infinità di doni. Si pensa che questa storia sia la riflessione ad un’improvvisa catastrofe scaturita da un terribile contagio. Un desiderio di potere, a scapito della gente, che riflette la bramosia di ottenere e monopolizzare il controllo dei beni necessari, controllo arrivato alla foce del fiume Columbia con i bianchi. Lo stereotipo del “mitico carattere naturale”, presumibilmente, era stato ispirato ai Nativi dallo sbalorditivo senso di possesso innato nei bianchi. La distruzione è la conseguenza delle trasgressioni nelle relazioni con i provvidenziali, grandi poteri del mondo. IL MITO DEL SOLE In un luogo lontano sorgeva una grande città, una città composta da cinque città minori. Un solo uomo governava sull’unica stirpe che abitava questo regno. L’uomo era solito uscire Alle prime luci del mattino Per ammirare, immobile, il sorgere del sole Un giorno l’uomo disse a sua moglie: “E se andassi in cerca della luce che fa splendere il sole?” “Tu pensi che sia così vicina da poterci arrivare? E vuoi dirigerti verso il sole?” Gli rispose la moglie Il giorno dopo All’alba L’uomo uscì dalla sua casa E vide ancora una volta il sorgere del sole Alla prima luce che sembrava giungere Proprio da quella direzione Chiamò sua moglie e disse: “Mi confezionerai 10 paia di mocassini e dei gambali per dieci persone”. La moglie obbedì Cucì mocassini per dieci persone Ed altrettanti gambali Il giorno dopo, all’alba Lui partì per quello che si prospettava essere un lungo viaggio E infatti camminò utilizzando tutti i mocassini Ed i gambali che aveva Camminò per cinque mesi E consumò cinque paia di mocassini E cinque di gambali E camminò ancora Per altri cinque mesi Mettendo fine alle sue scorte di mocassini e di sandali Infine giunse nel luogo da cui lei si diffondeva; arrivò proprio dove sembrava si trovasse la fonte Della luce del sole. E lì lui vide una casa Aprì la porta ed entrò In quella casa c’era una ragazza E lui si fermò con lei. In un angolo di quella abitazione L’uomo vide appese alle pareti Frecce, faretre cariche di frecce, corazze di pelle di alce corazze di legno scudi, asce, clave da guerra, monili piumati. Tutti questi oggetti del corredo di un guerriero Erano appesi in quell’angolo della casa Sulla parete opposta Facevano mostra di sé Coperte di pelle di capra di montagna Coperte di alce dipinte Pelli di bufalo Vestiti di pelle rivoltata Denti lunghi, collane di conchiglie Denti corti Infine, vicino alla porta C’era appeso qualcosa Ma lui non capì bene cosa fosse L’uomo chiese alla ragazza “Chi è il proprietario di quelle faretre?” “Sono della madre di mio padre Lei le custodisce per quando sarò pronta” “E di chi sono le corazze di pelle di alce e le frecce?” “Sono della madre di mio padre. Lei le custodisce in attesa del tempo in cui io sarò pronta” “E le corazze di legno, gli scudi, le clave di osso e le asce, di chi sono?” “Sono della madre di mio padre, e miei”. Poi volgendo lo sguardo verso l’altra parete l’uomo chiese ancora: “Chi è il proprietario di quelle pelli di bufalo, delle coperte di capra di montagna, di quei vestiti di pelle rivoltata?” “Sono nostre, le custodisce la madre di mio padre in attesa del tempo in cui io sarò matura”. Lui domandò di tutti quegli oggetti Chi ne fosse il proprietario Ed infine pensò “Io prenderò questa donna” Scesa la notte l’anziana donna tornò a casa attaccò al muro un’altra cosa una cosa che risplendeva, accecante. Era quella la luce che stava cercando e che lui voleva per sé. L’uomo decise di fermarsi in quella casa Ci rimase per tanto tempo Con la giovane donna. La vecchia andava via ancora prima dell’alba E tornava a casa dopo il tramonto Ogni giorno riportava diversi oggetti, a volte frecce, a volte pelli, a volte corazze. Ogni giorno. Trascorse tanto tempo E l’uomo cominciò a sentire nostalgia di casa Rimase a letto due giorni e due notti Senza alzarsi. La vecchia disse alla nipote: “Avete litigato e lui si è offeso?” “Non abbiamo litigato E’ solo che lui sente nostalgia di casa” Allora la vecchia disse all’uomo: “Cosa desideri portare con te quando tornerai a casa? La pelle di bufalo?” Lui rispose: “No” “Porterai via le coperte di capra di montagna?” “No” “Vorresti forse le corazze di pelle di alce?” “No”. Invano l’anziana donna gli mostrò gli oggetti che si accatastavano in quella parte della stanza Gli offrì tutto quello che aveva, ma lui voleva solo quella cosa… Quella cosa unica Tenuta lontano dalle altre Quando porterà via con sé quella cosa conservata lontano dalle altre lui sarà libero di andarsene E vagherà per il mondo Fino a quando i suoi occhi potranno vedere. Lui voleva a tutti i costi la fonte di quella luce che acceca il cui splendore si irradia dappertutto Lui non desiderava altro. L’uomo, decise di parlarne con la compagna “Quella donna deve darmi solo una cosa: il suo mantello” Lei rispose: “Non te lo darà mai. In tanti le hanno chiesto di scambiarlo con cose preziosissime Ma lei non l’ha mai fatto” L’uomo si infuriò E si mise a letto E non si alzò per diversi giorni La compagna allora tornò ad offrirgli tutte le cose che possedeva Gli mostrò tutti gli oggetti degni di un guerriero che si trovavano ammucchiati in quell’angolo della stanza Invano, lo implorò di scegliere tra quelle cose Poi, in silenzio scoraggiata e stanca si diresse verso quella cosa tenuta da parte Si avvicinò a quel mantello e disse solamente “Lo vuoi? Prendilo! Ma fai attenzione! E ricorda che sei stato tu a volerlo Io ho cercato di darti tutto l’amore che potevo Non avrei potuto fare altro, dal momento che ti amo. Prese il mantello E l’appoggiò sulle spalle del marito Poi gli consegnò un’ascia di pietra E gli disse “Ora puoi tornartene a casa” E lui se ne andò tornò sui suoi passi non si fermò in nessun altro posto. Arrivò nella città governata dal fratello di suo padre. E quella cosa che aveva sulle spalle cominciò a prendere vita Quella cosa che tanto aveva desiderato, parlò “Noi due colpiremo la tua città Noi due colpiremo la tua città”. Disse quel mantello che lui aveva tanto desiderato. La sua ragione non riuscì ad opporsi Fu come spazzata via E lui espugnò, distrusse, rase al suolo, la città del fratello di suo padre E ne uccise tutti gli abitanti Dopo essere ritornato in sé vide tutta la devastazione da lui stesso portata Vide le sue mani insanguinate E gridò “Sono pazzo. Ora mi accorgo di cosa realmente sia questa cosa! Perché mai l’ho desiderata tanto?” L’uomo allora cercò di togliersi di dosso quella cosa Senza però riuscirci. Sembrava che quel mantello gli si fosse attaccato alla pelle. L’uomo non poté fare altro che riprendere il suo cammino E percorse un altro tratto di strada Giunse nella città governata da un altro fratello del padre Nuovamente egli perse la ragione E nuovamente quella cosa parlò “Noi due colpiremo la tua città Noi due colpiremo la tua città” Invano l’uomo cercò di zittirla Quella cosa non tacque mai Invano cercò di strapparsela di dosso per buttarla via La sua mente tornò ad annebbiarsi E lui distrusse la città dell’altro fratello di suo padre Come aveva già fatto con quella precedente. Quando tornò in sé La città del fratello di suo padre Era distrutta, sparita La gente era tutta morta Lui pianse Invano cercò di passare tra due tronchi per tentare di sfilarsi di dosso quel mantello Quella cosa non si levava Rimaneva appiccicata al suo corpo come una seconda pelle Tentò anche di colpire quella coperta con dei sassi, scagliandoseli addosso Ma si accorse che quella cosa non poteva essere distrutta Allora lui riprese il suo cammino Ed arrivò nella città di un altro fratello di suo padre La cosa che aveva voluto per sé si rianimò ancora “Noi due colpiremo la tua città Noi due compiremo la tua città” Fu nuovamente accecato E distrusse anche questa città dell’altro fratello di suo padre Come aveva fatto nelle due città precedenti Distruzione, distruzione, distruzione, distruzione. Ritornò in sé, come era sempre accaduto E pianse, ancora E si addolorò per la fine che lui stesso aveva dato ai suoi parenti. Per strapparsi di dosso quel mantello tentò di gettarsi in acqua ma non c’era modo di liberarsi di quella cosa Invano si rotolò tra gli arbusti spinosi Tentando di strappare e fare a brandelli quella cosa Continuò a colpirsi con sassi sempre più grossi Fino a che non perse le speranze E la disperazione lo assalì Non poteva fare altro che riprendere il cammino Fino a che giunse in un’altra città La città di un altro fratello di suo padre Il mantello prese vita sulle sue spalle “Noi due colpiremo la tua città Noi due colpiremo la tua città” Lui perse la ragione E portò in quella città ancora distruzione, distruzione, distruzione, distruzione E morte Tornò in sé quando non c’era più anima viva nella città E lui era sudicio di sangue Nelle braccia e nelle mani “Qa, qa, qa, qa” il suo corpo era tutto lamento e disperazione. Provò ancora a scagliarsi contro le rocce Ma quella cosa non si strappava né si rompeva Lui voleva liberarsi di ciò che prima aveva tanto desiderato Ma quella cosa restava “impigliata” tra le sue dita Il suo cammino riprese, doloroso Adesso era vicino alla sua stessa città Sapendo già il destino che l’attendeva Lui cercò di fermarsi, di non proseguire Ma quella cosa sembrava tirarlo per i piedi proprio in quella direzione Una volta vicino alla meta La sua mente si offuscò E lui distrusse, annientò, rase al suolo La sua stessa città Uccise tutti i suoi parenti Quando ritornò in sé La sua città era sparita Dove prima si ergevano le case I morti ricoprivano la terra I suoi lamenti e la sua disperazione Riempirono l’aria “Qa, qa, qa, qa”. Si buttò nel fiume Tentando, ancora, di liberarsi di quella cosa Ma non ottenne alcun risultato Addirittura arrivò a gettarsi da un dirupo roccioso Pensando, sperando “magari cadendo mi riduco in mille pezzi” ma restò vivo e incolume come la cosa che aveva addosso Senza più speranza di liberazione da quel mantello non faceva che piangere attanagliato dalla disperazione. Poi, improvvisamente, guardandosi alle spalle Vide che c’era lei, la vecchia “Tu” gli disse la donna “invano ho cercato di dimostrarti il mio amore per te e per la tua gente. Perché, dunque, adesso piangi? Tutto è dipeso da te Tu hai voluto portarti via il mio mantello”. Lei tolse dalle spalle dell’uomo ciò che le apparteneva E se lo portò via Semplicemente lo lasciò lì da solo E se ne tornò a casa Lui rimase lì Poco lontano da dove si ergeva un tempo la sua città E si costruì una casa Una piccola casa.

Stella Della Sera

KURUK La tribù Kuruk (o Karok) vive nella parte alta del fiume Klamat (N/O California). Con gli Yurok e gli Hupa, per quanto la lingua Kuruk non abbia relazioni con le altre due, esprimono l’identità culturale che caratterizza questa area. La letteratura orale tradizionale di questa regione, in larga parte, consiste in miti ambientati in un tempo antico, precedente all’esistenza degli esseri umani. I personaggi dei miti sono persone/spiriti (ikxarèeyav), molti dei quali hanno nomi come Coyote, Orso e Cervo. Queste leggende finiscono regolarmente con l’affermazione che la vita degli esseri umani che devono ancora arrivare ad esistere sarà esattamente come sta ordinando la persona/spirito. A dimostrazione, dopo aver fornito il salmone e il granturco, Coyote afferma che gli uomini vivranno di loro. Alla fine della storia molti spiriti/persone sono trasformati nel primo esemplare della specie animale come la conosciamo oggi; gli altri rimangono nel mondo intangibile. I Kuruk si rivolgono alle persone/spiriti quando hanno bisogno dei loro favori. Per tanto, per esempio, prima che un cacciatore salga in montagna, fa una medicina chiedendo allo stesso Cervo il permesso di poterlo uccidere. Le “formule” più comuni sono preghiere e canzoni imparate dai familiari più anziani, e sono considerate proprietà preziose da tenere segrete. Il materiale cantato della formula è, generalmente, molto breve. Qualche volta è composto soltanto da “parole canzoni”, vocaboli senza significato e comparabili all’italiano: tra-la-la. Altre consistono in poche frasi corte ma ripetute diverse volte. Le canzoni d’amore (chiihvìichva) come Evening Star sono, nei fatti, una forma di medicina d’amore: formule magiche per attirare la persona amata. Stella Della Sera Stella Della Sera viveva lì, insieme al suo amore. E, per tanto tempo, vissero felici. Ma, un giorno, bisticciarono, oh, si azzuffarono, bisticciarono. E lui tornò a casa, Stella Della Sera se ne andò. Andò lontano. E, alla fine, se ne andò in giro, in giro per tutto il mondo. E la donna pensò, “Oh, amore mio! Come potrò rivederti, mio dolce cuore?” Oh, si sentiva sola, si lasciò cadere sul gradino della porta. “Oh, come sono sola! Oh, in che modo m’ha lasciato!” Pensava. E, così, il giorno dopo, alla sera, si rilasciò cadere. “Cosa posso fare?” E pensò, “Dovrei fare una canzone, così lo potrò rivedere, il mio amore.” Il giorno dopo ancora, tornò a lasciarsi cadere sul gradino. E cantò una canzone, sperando, “Lo rivedrò ancora.” Ii ii ii iiya aa ii ii iiya aa ii ii iiya oh, m’hai lasciato oh, amor mio Oh, sono sola oh, per un bisticcio oh, amor mio oh, Stella Della Sera oh, ina ina Oh, m’hai lasciato oh, per un bisticcio oh, amor mio oh, amor mio oh, amor mio Se andrai allo sbocco ina della fine della terra io andrò oltre la fine e capirai inaa oh, amor mio Oh, di stare insieme oh, stare insieme oh, amor mio oh, sono sola oh, amor mio e capirai ina oh, amore mio oh, per un bisticcio te ne sei andato alla fine della terra senza più una casa devi girare intorno fino al centro della terra qui rotoleremo insieme sul tuo petto rotoleremo insieme Oh, amor mio oh, Stella Della Sera oh, Stella Della Sera capirai ina quando gli Uomini verranno lo faranno anche loro se anche v’azzuffate tu e il tuo amore trovate la mia canzone e capirete ina di stare insieme io ve l’ho insegnato ina oh, amor mio Quando lei aveva finito, di cantare al suo amore, Stella Della Sera capì: “Oh, sono solo, penso solo al mio amore, la devo ritrovare!” Aveva perso il cuore, ma lo ritroverà. Qui nel centro della terra, s’incontrarono ancora, e lui ritrovò il cuore quando Stella Della Sera e il suo amore tornarono insieme. E lei parlò così la donna lo disse, “Quando gli Uomini verranno, se una donna sarà lasciata, ritroverà il suo lui, con la mia canzone. Ritornerà da lì, fosse andato fino alla fine del mondo.” E Stella Della Sera fu trasformato in una grande stella del cielo.

Canzone d'addio

HAVASUPAIS Gli Havasupais sono una piccola tribù del Gran Canyon (Arizona) che vive in una lussureggiante oasi di spettacolare bellezza e colori. La Canzone d’Addio illustra il loro amore per la terra. Le Canzoni dei Vecchi e delle Vecchie (genere della canzone) sono composte per esprimere le più sentite e profonde emozioni. Possono essere canzoni d’amore, di rabbia, o di orgoglio nei riguardi di un familiare. Sono quasi sempre dirette ad una certa persona ma alcune, come questa, sono dedicate alla terra. Gli Havasupais, tradizionalmente, non parlano delle loro emozioni ma le cantano. La Canzone d’Addio esprime la convinzione dei giovani di essere immortali, e mostra il profondo disappunto dei vecchi che comprendono la falsità di questa credenza. E, pure con maggiore forza, comunica la certezza che la terra sia un essere vivente che ha una stretta e amorevole relazione con gli umani. Gli Havasupais credono che la terra provi sensazioni e, per questo, quando si spostano spiegano alla terra chi sono, perché sono lì, e dove stanno andando. Credono che la terra sappia quando ci siamo sopra e che gli manchiamo quando andiamo via. La diffusissima pratica di piantare sul terreno dei bastoncini, quando arriva la primavera, è figlia di questa convinzione. CANZONE DI ADDIO Sorgente che mi davi da bere Terra che ho calpestato Dove sono nato Ascoltami E dimenticami Mi sentivo eterno Credevo di vivere per sempre Ne ero convinto Credevo di restare giovane per sempre Ma oggi le forze m’hanno abbandonato Pensavo di stare per sempre così Ero così Ma oggi le forze m’hanno abbandonato Terre che ho visitato Quel posto Ascoltami E dimenticami Prede brade Che cacciavo Pensavo di stare per sempre così Sarei stato per sempre così Ma oggi le forze m’hanno abbandonato Io ero così Io ero Io ero Macchia d’arbusti Quel posto Ti giravo intorno correndo ascoltami E dimenticami Dimenticami Tronchi caduti Vi saltavo sopra Quel posto Ascoltami e dimenticami Piccoli sassi C’incespicavo Quel posto Ascoltami e dimenticami Sentiero lì disteso che una volta seguivo una volta seguivo Quel posto Ascoltami E dimenticami dimenticami Torrente Torrente Ti saltavo al volo Quel posto Ascoltami Ascoltami e dimenticami Altissime colline Altissime colline quel posto correvo in cima Quel posto Ascoltami e dimenticami Correvo in cima alla cima Mi fermavo lì guardavo lontano Quel posto Ascoltami E dimenticami dimenticami Lepre lontana giovane marrone Balzavi dal rifugio Balzava dal rifugio L’inseguivo l’inseguivo Subito addosso l’arrivavo al lato questo facevo Col bastone da caccia il mio L’uncinavo l’afferravo l’arrostivo arrostivo e mangiavo Pensavo di vivere per sempre pensavo di viaggiare per sempre Sembrava esser così ma oggi le forze m’hanno abbandonato Antilope lontano Antilope lontano giovane Balzavi dal rifugio Balzava all’improvviso Partiva L’inseguivo Subito addosso l’arrivavo al lato questo facevo Col bastone da caccia il mio L’uncinavo l’afferravo L’arrostivo e mangiavo Pensavo di vivere per sempre pensavo di viaggiare per sempre pensavo fosse per sempre così sembrava Ma oggi le forze m’hanno abbandonato Terre che ho visitato Quel posto Ascoltami e dimenticami E’ questo che chiedo Che chiedo Oh! Terre che ho visitato Quel posto Ascoltami Pensavo fosse per sempre così io ero così Ma non era vero Pensavo fosse così per sempre ma non era vero Pensavo fosse così per sempre ma oggi le forze m’hanno abbandonato Pensavo fosse così per sempre Pelli di cervo le mie le appendevo sul ginepro l’albero coprivo Le guardavo Mi sentivo così fiero Pelli di cervo le mie le appendevo sui ginepri Due alberi coprivo Tre alberi coprivo Le guardavo Mi sentivo così fiero Pensavo fosse così per sempre Pensavo fosse per sempre così ma oggi le forze m’hanno abbandonato Pensavo fosse per sempre così Io ero così io ero Pensavo di vivere per sempre pensavo di viaggiare per sempre io ero così Sarei rimasto sulla terra sembrava Che così fosse Ma oggi le forze m’hanno abbandonato Il cielo sopra a me sembrava restarci per sempre sembrava Pensavo fosse per sempre così ma oggi le forze m’hanno abbandonato Ascoltami e dimenticami Dimenticami Oggi le forze m’hanno abbandonato Pensavo fosse per sempre così Io ero così io ero La fonte Arrivavo M’inchinavo al posto per bere per bere sempre quel posto ascoltami E dimenticami dimenticami Buco dipinto dall’acqua sulla roccia arrivavo M’inginocchiavo Quel posto Dimenticami dimenticami Il sole sopra le colline Lo guardavo calare Poi cominciavo a correre cominciavo a correre Io ero così Non andavo piano Questo non lo facevo Non ero così Non ero così Io correvo veloce correvo veloce Io rincasavo veloce rincasavo veloce Io sorpassavo il sole Sorpassavo il sole Questo facevo Io ero così Non dormivo fino a tardi non aspettavo il sole Questo non lo facevo Non ero così Non ero così Alba quando arrivavi io ti vedevo M’alzavo M’alzavo Ti venivo incontro Pensavo fosse così per sempre è così che viaggiavo Pensavo fosse per sempre così ma oggi le forze m’hanno abbandonato Pensavo fosse per sempre così io ero così Ascoltami Terre che ho visitato quel posto ascoltami e dimenticami dimenticami E’ questo che chiedo che chiedo La forza m’ha abbandonato Pensavo fosse per sempre così io ero così Pensavo di vivere per sempre Pensavo di vivere per sempre Sarei rimasto sulla terra sembrava Sarei restato sulle montagne sembrava io ero così credevo così Mi sentivo così fiero Pensavo fosse per sempre così Ma oggi le forze m’hanno abbandonato Pensavo fosse per sempre così Io ero così io ero

LA CANZONE DEL CAVALLO

NAVAJO Fra le centinaia di canzoni Navajo trascritte, questa cerimonia di benedizione, si distingue per la grande varietà di metafore usate che, nella poetica dei Nativi Americani, è alquanto inusuale. La cerimonia viene celebrata per garantirsi una grazia, la buona fortuna, la prosperità, o l’incremento dei beni vitali – i cavalli sono il simbolo di questi desiderati fini. Una benedizione che si può fare quando si inaugura una nuova casa, quando si parte per un viaggio, quando si aspetta un bambino, o nell’esigenza di un rinnovamento fisico o spirituale. Può essere usata per la “ricarica di potere” di un gruppo di strumenti cerimoniali. Le Canzoni del Cavallo non sono parte di tutte le cerimonie per le richieste di grazie ma, principalmente, di quelle che includono i viaggi, i beni necessari, o la salute. La Canzone del Cavallo del Dio della Guerra, nel suo titolo originario, è una delle canzoni Navajo più tradotte e pubblicate in America. Alla fine di ogni canzone è riportata la spiegazione che ne dava la voce narrante. LA CANZONE DEL CAVALLO He-neye yana, Con le loro voci mi stanno chiamando, con le loro voci mi stanno chiamando, con le loro voci mi stanno chiamando, con le loro voci mi stanno chiamando, con le loro voci mi stanno chiamando, con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana. Con le loro voci mi stanno chiamando, con le loro voci mi stanno chiamando, con le loro voci mi stanno chiamando, con le loro voci mi stanno chiamando, con le loro voci mi stanno chiamando, con le loro voci mi stanno chiamando, con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana. Donna Conchiglia Bianca, na, il suo bambino, perché è questo che sono, na, con le loro voci mi stanno chiamando, con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana. Portatore Del Disco Del Giorno, ye, suo figlio, ’e, perché è questo che sono, na, con le loro voci mi stanno chiamando, con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana. Ragazzo Turchese, perché è questo che sono, na, con le loro voci mi stanno chiamando, con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana. L’arcobaleno, iye, dov’è blu, wo, sono lì, iye, ora, lì sopra dove s’inarca, ora, dove tocca la terra, yiye, questa parte più vicina, con le loro voci mi stanno chiamando, con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana. Questo significa, “lì sopra dove s’inarca l’arcobaleno, dove finisce con il blu, poco lontano dalla fine, loro mi stanno chiamando”. La madre gli ha detto che quel suono è un cavallo. Lui aveva chiesto: “Cos’è questo suono? E’ qualcosa di male che viene dalle battaglie che ho combattuto recentemente?” Lei aveva risposto: “No, questo è il suono dei cavalli che arriva da dove vive tuo padre”. Lui stava andando a casa di suo padre. La strada sull’arcobaleno finiva sul posto dove era la casa del Sole. Lì, probabilmente, prima che raggiungesse la fine aveva sentito i cavalli. Ragazzo in Piedi Fra il Portatore Del Disco Del Sole, ye, i suoi cavalli, i’e, con le loro voci mi stanno chiamando, con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana. Il Ragazzo Fra Sole In Piedi e i suoi cavalli: sta parlando dell’altro fratello, il figlio del Sole che vive la sopra. Perché i cavalli vengono da lì, Ammazza Nemici sente i suoi cavalli. I cavalli del figlio del Sole mi stanno chiamando. Il figlio del Sole, i suoi cavalli lo stanno chiamando. “In Piedi Fra” si rivolge a sua madre. Il figlio del Sole, il discendente del Sole, i suoi cavalli mi stanno chiamando. I cavalli turchesi, quelli sono i miei cavalli, i’e, con le loro voci mi stanno chiamando, con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana. I suoi zoccoli, scuro, iye, brocche per l’acqua, con le loro voci mi stanno chiamando, con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana. La piccola brocca d’acqua è fatta con il suo piede. Si riferisce agli zoccoli. Le rane dei sottozoccoli, ye, punte per le frecce, con le loro voci mi stanno chiamando, con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana. Qui si riferisce alla punta della freccia intagliata dallo zoccolo, dalla parte di sotto. Gli zoccoli striati, ihiye, pietre miraggio, con le loro voci mi stanno chiamando, con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana. I suoi zoccoli erano pietre miraggio. Dalle gambe davanti, scuro, iye, il vento, con le loro voci mi stanno chiamando, con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana. Vuol dire in movimento, correndo veloce. Le sue gambe sono come zigzaganti fulmini. Sotto la coda, scuro, iye, ombra di nuvole, con le loro voci mi stanno chiamando, con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana. Questo significa l’ombra nera nel cielo che scende dalle nuvole. Dal suo corpo, ogni tessuto, con le loro voci mi stanno chiamando, con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana. E’ ricoperto, scuro, i, di nuvole, con le loro voci mi stanno chiamando, con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana. Vuol dire la loro pelle. Sul suo corpo, rosso, jiye, sono sparse le fiammate del sole, con le loro voci mi stanno chiamando, con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana. “Le fiammate del sole, rosso”-vuol dire piccoli pezzi di arcobaleno. “Sono sparse sul suo corpo”- le scintille che vedi la notte sul pelo del cavallo. Portatore Del Disco Del Sole, yeye, ’eye, risplende su loro da prima di loro, con le loro voci mi stanno chiamando, con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana. Lontano laggiù, il sole sale davanti a loro e splende su i loro peli. La groppa, iye, la nuova luna, con le loro voci mi stanno chiamando, con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana. La coda, iye, i raggi di sole, con le loro voci mi stanno chiamando, con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana. Le redini, iye, l’arcobaleno, con le loro voci mi stanno chiamando, con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana. Quando partono, iye, con l’arcobaleno, con le loro voci mi stanno chiamando, con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana. L’arcobaleno è l’energia che li fa partire velocemente, come la batteria di un’automobile. La criniera scorre, scura, diye, come pioggia copiosa, con le loro voci mi stanno chiamando, con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana. Le orecchie, iye, come germogli, con le loro voci mi stanno chiamando, con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana. Significa che le loro orecchie crescono verso l’alto come le piante. Gli occhi, scuri, iye, grandi stelle, con le loro voci mi stanno chiamando, con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana. Poiché le stelle di notte brillano chiare i cavalli possono ritrovare la loro casa anche nell’oscurità. Sulla faccia, iye, acqua di ogni sorta, con le loro voci mi stanno chiamando, con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana. Acqua di sorgente o fiume, che arriva dalla terra. A volte dolce, a volte salata: mischiata con tutti i colori. I cavalli, in ogni luogo, bevono ogni sorta di acqua e, se non è avvelenata, non gli fa male. Se è coperta da uno strato di polvere, la soffiano via. Nello stesso modo, per non inghiottire niente di sporco o di nocivo, soffiano sulla polvere che ricopre l’erba che si apprestano a mangiare. Il segno di questo è la spirale che hanno sulla faccia. E’ il segno di riconoscimento della completezza dell’essere cavallo. Qui sta il bandolo della matassa. Possono mangiare spini, non gli faranno male, o insetti velenosi, non gli faranno male. Mangiano il polline dei fiori più belli cresciuti con le acque più diverse. Le labbra, wheye, grandi conchiglie, con le loro voci mi stanno chiamando, con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana. Si riferisce alle grandi conchiglie che hanno labbra e punti come denti. I denti, bianchi, ye, conchiglie, con le loro voci mi stanno chiamando, con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana. I suoi denti erano conchiglie. I nitriti sono fiaccole di fulmini, con le loro voci mi stanno chiamando, con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana. I fulmini furono messi nelle loro bocche per mordere. I morsi dei cavalli fanno male. Parlano precisi come fulmini. Dalle bocche, scure, iye, risuona musica, con le loro voci mi stanno chiamando, con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana. Si riferisce agli strumenti musicali. A quando si fa musica che si porta lo strumento alla bocca. Perché, quando i cavalli furono creati, scuro, nelle loro bocche ci misero quelli che fanno la musica. Dalle loro bocche, iye, risuona l’alba, con le loro voci mi stanno chiamando, con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana. Le loro voci, he, paiono scuro, ora mi raggiungono, con le loro voci mi stanno chiamando, con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana. Dalla bocca, iye, all’alba si spande il polline, con le loro voci mi stanno chiamando, con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana. Ogni nuova cosa comincia con l’inizio dell’alba. Il cavallo riceve nuova aria dentro la bocca per respirare e suonare con il polline creato all’alba. E’ come quando impari qualcosa; ce l’hai in mente e poi lo usi, e con quello insegni agli altri. Il cavallo non sa quando è stanco o assonnato – non sono fatti come noi. Qualsiasi cosa fosse, quello che gli fu messo in bocca, è quello che non gli fa sentire la stanchezza. Gli è stato messo in bocca perché arrivasse subito alla mente, così non può dimenticarlo. Polline e rugiada stesi nella bacca, sacro, ye, con i fiori, con le loro voci mi stanno chiamando, con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana. Tutti mangiamo tanto di quel cibo che ci piace. I cavalli avranno sempre tanta vegetazione da mangiare: fiori, polline e rugiada. Significa che piante ed acqua ci saranno sempre e, per questo, i cavalli vivranno per sempre. Per questo mangiano ogni sorta di fiori, di polline e d’ acqua. Le sue redini, iye, i raggi del sole, con le loro voci mi stanno chiamando, con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana. Ora! Bellamente alla mia mano, e, al mio braccio destro, con le loro voci mi stanno chiamando, con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana. Questo significa che in nessun modo, in futuro, si potrà far male ai cavalli; staranno sempre bene. Ora! diventano i miei cavalli, ye, da questo giorno, con le loro voci mi stanno chiamando, con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana. Ed è lo stesso per me. Oggi diveniamo alleati, ed io sarò il vincitore. Mai più diminuiranno, ora! si moltiplicheranno, con le loro voci mi stanno chiamando, con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana. I miei cavalli, ora per sempre ritornati a lunga vita e quindi sacri, con le loro voci mi stanno chiamando, con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana. Da quando io, ora me medesimo, sono il Ragazzo per Sempre Ritornato a Lunga Vita e Quindi Sacro, con le loro voci mi stanno chiamando, con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana. con le loro voci mi stanno chiamando, con le loro voci mi stanno chiamando, con le loro voci mi stanno chiamando, yehe, con le loro voci mi stanno chiamando, con le loro voci mi stanno chiamando, con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, ne’eya!

COYOTE

NAVAJO Le storie Navajo su Coyote sono raccontate ai bambini durante le serate invernali perché, si dice, che le creature più pericolose, come ad esempio i serpenti, le lucertole e gli orsi, durante l’inverno vadano in ibernazione; avranno la scintilla col primo temporale primaverile. Coyote è una delle figure mitologiche della cultura Navajo. E’ considerato un semi-Dio e, per questo, serve come messaggero fra le divinità e i Dinè (Gente Navajo). Gli Uomini della Medicina raccontano storie che, comunemente, si riferiscono a cose dette o fatte da Coyote all’inizio di questo mondo (il 5° Mondo), o in uno dei precedenti quattro. Molte di queste storie si riferiscono alle primogeniture di Coyote su certi tipi di comportamento – buoni o cattivi - che gli umani praticano in questo mondo. Quando sta per accadere qualcosa di disdicevole, si dice, che Coyote mandi un segnale di avvertimento, magari interferendo nell’armonia della vita quotidiana della probabile vittima attraversandogli la strada. In altri casi, i suoi precedenti, vengono portati ad esempio come comportamenti da non seguire. Per esempio: Coyote ha rapito il figlio del Mostruoso Essere dell’Acqua perché era rimasto attratto dalla sua tenerezza; dunque: il rapimento è un’azione spregevole perché è stato Coyote il primo a rapire un altro essere vivente. In principio c’era il Mondo Nero … una massa buia e confusa. Poi, all’inizio, arrivarono le divinità: Primo Uomo e Prima Donna. Arrivarono dai quattro mondi e, Coyote, li ha accompagnati dal primo momento ad oggi. COYOTE Fu proprio Coyote a mettere una o due pecore in ogni cortile Navajo. E proprio perché fu lui a metterle… da allora… lui si sente nel giusto se ne ruba una o due per sfamarsi. Questa è la regola… dal tempo dei tempi! Così è detto! Ma prima che si comprendesse che questa era la legge, tanto, tanto tempo fa, all’inizio del tempo, la gente mostrò poca tolleranza nei confronti di Coyote, che fu subito definito Ladro. “Ma’ii – gli dissero gli uomini – riprenditi le tue pecore dal cortile e curatene da solo, se farai così noi non ti odieremo più e tu potrai saziarti a tuo piacimento”. “No! No… cari cugini! Che orribile pensiero! Questo non è possibile… io non saprei neanche come fare. E poi, sono sempre in giro e non potrei prendermi cura delle bestie! – rispose Coyote – inoltre, se non ci fossi io a rubarvi le pecore, voi, non dovendovi più prendere cura di loro, diventereste sfaccendati e pelandroni. Vi scongiuro, lasciate che le mie pecore restino nei vostri cortili!”. Questa storia del destino di Coyote spiega perché, a tutt’oggi, Coyote continua a rubare le pecore e a rischiare.

LA CACCIA DEL CERVO

YAQUI Gli Yaqui o Yoemem (la Gente), come chiamano se stessi, considerano la Canzone del Cervo la loro più antica forma d’arte verbale. La Caccia del Cervo descrive entrambi i mondi: questo e quell’altro; un mondo dove tutte le azioni del danzatore del cervo hanno un parallelismo in quel mitico posto primordiale che gli Yaqui chiamano Sea Ania (Mondo Fiorito). Il Mondo Fiorito è associato con altri posti spirituali come lo Yo Ania (Mondo Incantato), o lo Huya Ania (Mondo Selvatico). Il Mondo Selvatico è la casa di tutti e due: Saila Maso (cervo) e Yevuko Yoleme (prototipo del cacciatore). Le Canzoni del Cervo descrivono l’equivalenza fra queste due parti reali dell’universo Yaqui. Collegano il mondo polveroso della danza con l’etereo Mondo Fiorito, un mondo visibile e uno invisibile, il mondo che è sempre qui con quello che è sempre di là. I Sewam (fiori) sono le chiavi di questa equazione. I fiori sono tutto ciò che di bello e di buono ci arriva dal Mondo Fiorito. Ogni cosa che è animata, influenzata, o toccata dal Sea Ania può essere definita Sewam. Il palcoscenico, Rama (dallo spagnolo ramada), è fatto con gli arbusti del Deserto di Sonora disposti in maniera da suggerire un’apertura nel deserto; perché si crede che, durante la cerimonia, il Rama diventi il Mondo Fiorito. Alla fine di ogni canzone è riportata la spiegazione che ne dava la voce narrante LA CACCIA DEL CERVO Prima devi solo guardare Dopo lo troverai, lo troverai Prima devi solo cercare Dopo lo scoverai, lo scoverai Prima devi solo aspettare Dopo lo prenderai, lo prenderai Aspetta Lo prenderai “Sono risalito da una apertura laggiù nel piccolo bosco ricoperto di fiori” Una volta che sarà fuori, lo prenderai Prima devi solo guardare dopo lo scorgerai, lo prenderai. “Prima cercalo con gli occhi” dice la canzone. “Quando emerge dagli arbusti, lo vedrai”. “Cercalo che poi lo troverai” così dicono i cacciatori, i pakkolam . Allora, i pakkolam escono a caccia. Cercano le tracce dell’animale negli anfratti. Si, negli angoli selvatici più nascosti. Oddio! Non sono proprio angoli selvatici quelli in cui si è al cospetto del rama . I cacciatori cammineranno, cammineranno. Poi, fuori dal luogo selvatico, cercheranno quell’animale. E ancora lo cercheranno e così facendo torneranno al cospetto del rama. Così dice la canzone. Dove cresce l’agave mescal Lì ci incontreremo Immobili e saldi come l’agave mescal Ci incontreremo lì. Dove si erge l’agave mescal Ci ritroveremo Decisi ad aspettare Fissi e impassibili come l’agave mescal Che cresce vigorosa Dove noi ci siamo dati appuntamento. “E tu sei incantevole, avvoltoio nero di cielo” “E tu sei incantevole, avvoltoio giallo di terra ” noi ci incontreremo dove si erge il legno bianco e l’agave mescal; insieme parleremo di questo animale. L’avvoltoio nero e quello giallo si incontreranno dove si erge un albero bianco. “Quando ci incontreremo parleremo di questo animale” dice l’avvoltoio nero. I due parleranno del cervo che intendono mangiare. Il cervo danzerà per questo. L’avvoltoio nero e l’avvoltoio giallo parleranno insieme tra loro dove si erge l’albero bianco. Loro appaiono in questo mondo quando vedono qualcosa che giace morto per terra. Loro vivono da qualche parte sopra le nostre teste. L’avvoltoio nero e l’avvoltoio tacchino scendono in questo mondo perché vogliono mangiare. Questo dice la canzone. Loro vogliono cacciare e poi mangiare. È per questo che parlano del cervo. “Laggiù – dicono – c’incontreremo dove si erge l’albero bianco”. Forse anche l’albero è morto. Aspettano insieme laggiù, sotto il sole che li riscalda. Parlano dell’animale, di dove lo soggiogheranno. Sono loro che lo mangeranno. Stanno aspettando da qualche parte laggiù. Cercano le tracce Laggiù intorno “Prendilo per me” Seguono le tracce proprio laggiù “Prendilo per me” Annusano l’animale che si trova nel mondo “Prendilo per me” Inseguono la preda “Prendilo per me” Laggiù c’è un’apertura che affaccia sul piccolo bosco ricoperto di fiori Da lì lui verrà fuori “Tu lo prenderai per me”. È laggiù nei paraggi “Cerca le tracce; prendilo per me” “Cerca le tracce, laggiù intorno. Manca poco, lo prenderemo” dice la canzone. “Da un’apertura del piccolo bosco ricoperto di fiori, quando arriverà lì, noi lo prenderemo” dicono i pakkolam. “Una volta uscito allo scoperto lo prenderemo” e con questa strofa la canzone finirà, finirà. Il cervo sarà ucciso, lì nel rama. Intanto quelli che lo aspettano siedono qui. Aspettano seduti tutti e quattro nascosti dietro un cespuglio. Quando saranno lì fermi ad aspettare, il cantore del cervo intonerà questa canzone. Quando starà per iniziare la canzone, il cervo correrà incontro fra i cespugli proprio ai quattro pakkolam che, nella foga di alzarsi, cadranno in avanti l’uno addosso all’altro. L’un l’altro, gridando, si raccomanderanno di non fare rumore. I pakkolam si prenderanno in giro l’uno con l’altro. Il cervo, alla fine della strofa, urtando contro uno lì seduto, scapperà via. Questa volta i pakkolam, sorpresi e spaventati, cadranno indietro. Proprio quando il primo della fila colpirà e così, quando lui scaglierà la freccia, la scaglierà in alto, in alto nell’aria, e getterà l’arco. Allora, gi altri pakkolam, che sono i suoi figli, diranno “come può un uomo grande fare questo, babbo, papa?” e prenderanno in giro l’uomo. Si faranno gioco del padre! “Arco, dov’è la mia Freccia ?” “E’ a Punta Storta” “E’ a Sperduto ce n’è un’altra” Così i cacciatori si prenderanno in gioco l’uno dell’altro. E uno dirà “No, non l’uomo chiamato Freccia ma la freccia dell’arco”. E poi si metteranno tutti a cercare la freccia di legno… “E’ qui la freccia che ti appartiene”. Intanto il cervo è scappato dal rama. Per cercarlo i cacciatori faranno un giro intorno alla croce sul rama. Il cane li seguirà. Fiuterà e seguirà le tracce. Quando le troverà, abbaierà forte. “Il cane le ha trovate laggiù”, diranno. Ed il cane, ancora una volta, continuerà la sua corsa dietro il cervo. La canzone dice così. Vado in un posto Dove non c’è salvezza Vedo i miei stessi passi Dirigersi verso la mia rovina Vado incontro Alla mia fine Vado in un luogo Dove mi aspetta la morte So che oltre il bosco Per me non c’è ritorno Eppure vado ugualmente Nel luogo da cui non si può ritornare Sono risalito da quel buco E mi trovo nel bosco fiorito Dove si aggirano questi incantevoli Uomini freccia In questo posto non avrò scampo Eppure ci vado E’ questa la fine del cervo. Lui è uscito dal suo mondo, ha visto l’apertura e se ne è tirato fuori. “In nessun posto potevo trovare la mia salvezza” dice. “Va bene qui, dove ci sono gli uomini freccia, gli vado incontro” ci dice. Certo, lui non sa esattamente quello che vuole e quello che desidera. Per questo va dove ci sono loro. “Vado verso la mia rovina” dice il cervo; da un’apertura del bosco selvatico al mondo selvatico. Il cervo parla così. È proprio il cervo a dire questo. Lui è saltato fuori, verso il mondo selvatico. La canzone prosegue. Sebbene io fossi ben nascosto nel bosco selvatico Sto correndo fuori La mia corona di corna mi tradisce Smuove i rami dei cespugli Riparato nel fondo del bosco Ne sono uscito Ora la mia corona svela la mia presenza Intricandosi tra i rami dei cespugli Dal mio rifugio nel bosco selvatico Ho deciso di venire fuori allo scoperto E’ tutta colpa delle mie grandi corna Più alte dei rami dei cespugli Dove si impigliano Potrei rimanere nascosto nel bosco Invece sto correndo fuori La mia corona di corna svela la mia presenza Smuove i rami dei cespugli Il cervo comincia a correre e tenta di nascondersi. Corre verso la prateria. Ma le sue corna agitano la boscaglia. Lui sa tutto ciò che gli sta accadendo e lo racconta. Ed ecco il significato di quello che dice. “Nascosto al sicuro del piccolo bosco selvaggio, sto correndo fuori”, dice. “Le mie corna mi tradiscono. Si vedono muoversi tra i rovi” dice il cervo. Lui sa di avere grandi corna. E la canzone prosegue. Piccolo bosco ricoperto di fiori, ti vengo incontro Ti sto parlando Piccolo bosco di fiori, sto arrivando E ti parlo Adesso vado verso il bosco fiorito E mi rivolgo a lui Mentre mi incammino laggiù …attraverso il varco del piccolo bosco ricoperto di fiori dietro di me vedo questi incantevoli uomini freccia. E’ questo che vedo alle mie spalle E te lo dico, piccolo bosco fiorito. Mentre la canzone avanza verso il finale, il cervo continua a correre. E mentre corre parla rivolgendosi al mondo che lo circonda. Scappa, e chiede aiuto al mondo selvatico in cui è caduto. “Piccolo bosco ricoperto di fiori” dice “Sto arrivando da te e ti parlo”. Il cervo vuole che qualcuno parli per lui. Vuole che il mondo selvatico parli per lui. Come potrà parlare per lui? Non c’è una risposta, la canzone dice solo questo. Quel povero essere vuole che qualcuno abbia la benevolenza di parlare per lui. Il cervo non vuole morire e lo dichiara nella canzone. E la canzone continua. Voi siete fratelli Prendete la mira, di comune accordo tra voi Dopo aver preso la mira Colpite insieme Avete lo stesso sangue Tirate bene e fatelo in accordo tra voi Annuendo l’un l’altro Colpite insieme Mirate, dunque, lanciate Convinti di colpire In pace tra voi Insieme colpite Io mi trovo lì Al centro dell’apertura Sul piccolo bosco ricoperto di fiori “Stiamo correndo”. La mia bava diventa fiore Calpesto polvere che diviene fiore “Stiamo inseguendo” Tirate bene, di comune accordo, tirate tutti insieme. Questa parte della canzone riguarda i cacciatori che sono impegnati nell’inseguire il cervo. E infatti loro continuano a correre, scagliando contro l’animale le loro frecce. E fanno come i ragazzini quando inseguono qualcosa o qualcuno. “Corrono verso un’apertura del piccolo bosco” dice la canzone. “Correndo come persone che diventano fiore, bava/polvere/fiore” dice la canzone che prosegue: “Tirate bene, di comune accordo” dice “Ricordatevi che siete fratelli”. La canzone dice questo e continua. Dove stanno lanciando le loro frecce? Le tirano nel bosco A cosa stanno mirando? Stanno mirando all’aria Cosa stanno colpendo? Non colpiscono nessuno. Io mi trovo laggiù In un’insenatura Immerso nel bosco coperto di fiori Con la bava divenuta fiore Con la polvere diventata fiore “Stiamo correndo” dove stanno tirando? Stanno tirando nel nulla I pakkolam corrono e cercano di colpire il cervo con le loro frecce. “Ma dove tirano?” domanda la canzone. “Tirano al nulla” risponde. I pakkolam inseguono il cervo ma dentro stanno già cantando. “Laggiù in un’apertura sul piccolo bosco, con la bava diventata fiore, con la polvere diventata fiore, stanno correndo” dice la canzone. Tirano senza colpire. La canzone dice solo questo. Non volendo morire Districandosi tra i rovi del bosco selvatico Non volendo cedere Divincolandosi tra le sterpaglie del bosco selvatico Rifiutandosi di soccombere Correndo tra i rami del bosco selvatico Non volendo ammettere la sua fine Sferzato dai fuscelli del bosco selvatico Io sono laggiù Correndo nel piccolo bosco coperto di fiori E cerco di correre dimenandomi, ferendomi, ad ogni incantevole cespuglio non volendo morire districandomi tra i rovi del bosco selvatico Il cervo corre verso il mondo selvatico. Volendo salvarsi, lui cerca rifugio nel mondo selvatico e vuole entrarci. “Voglio entrare nel mondo selvatico” dice. “Non volendo morire voglio entrare nel mondo selvatico”, lo stesso cervo dice questo, mentre continua a correre per salvarsi. Esausto per il troppo correre, adesso rallento il passo Malgrado la stanchezza continuo a correre Esausto per il troppo correre, adesso rallento il passo Cammino dopo aver perso il fiato nella corsa Nonostante la stanchezza, procedo nella fuga Esausto dal correre, adesso cammino Ho corso troppo, adesso cammino Ho corso troppo ma non mi fermo La fuga mi ha sfinito Ma non mi fermo ed avanzo Rallentando il passo Io sto camminando laggiù Lungo un sentiero Attraverso il piccolo bosco ricoperto di fiori E continuo a camminare Con la testa china Verso la terra E continuo a camminare Con la bava alla bocca Continuo a scappare Nonostante io sia esausto per il troppo correre Continuo a camminare Per salvarmi “Esausto per il troppo correre” dice la canzone. “Esausto per il troppo correre, continui a camminare”. Stanco, camminando, agitandosi tra i rami estremi alla fine del piccolo bosco, il cervo procede nella sua corsa. Con la testa china verso la terra, con la bava intorno alla bocca, sta camminando. Stanco, camminando, lo stesso cervo si racconta e lo fa in questo modo. Mai più Io sarò in questo mondo né camminerò ramingo non ci sarò mai più Io non ci sarò domani Non camminerò più Su questa terra Non ci sarò mai più Ma cammino ancora Laggiù Nel sentiero racchiuso nel piccolo bosco fiorito Ammetto… l’arco di Yevuku Yelome Mi ha sconfitto incantevolmente La freccia di bamboo di Yevuku Yelome Mi ha vinto meravigliosamente Mai più la mia ombra Si poggerà su questa terra Non camminerò più in questo mondo E qui il cervo cade. “Mai più io sarò qui, né camminerò ramingo” dice. Il cervo sta per essere ucciso, sta per morire. “L’arco di legno di Yevuku Yelome”, dice. Vuol dire che un arco di legno lo ha sconfitto incantevolmente. “Con l’arco bastone di Yevuku Yelome sono stato sconfitto incantevolmente”. E’ lo stesso cervo a raccontare la sua fine. Lui usa queste parole. Mentre sta morendo, mentre agonizzante va a morire, dice questo. Come coloro che andando in guerra felici accettano di poter morire sul campo di battaglia, e proprio lì dirigeranno i loro passi , così fa il cervo. Le mie zampe si trovano sulla mia corona di corna Ma cosa mi sta succedendo? Che posizione è quella in cui mi trovo? Cosa mi è accaduto? La mia corona di corna è sovrastata dalle mie zampe Non era mai accaduto questo Io sto ancora camminando Laggiù Lungo il sentiero che attraversa il piccolo bosco coperto di fiori Ammetto…. L’uomo fiore con il suo arco di legno Mi ha preso L’uomo fiore, armato di freccia e bastone divenuto fiore Mi ha sconfitto incantevolmente È ancora il cervo a descrivere la sua condizione, mentre viene trasportato. I cacciatori lo hanno ucciso, i pakkolam, gli uomini cacciatori. Io pure uccido i cervi. Ed anch’io metto le zampe sulle corna dell’animale quando devo trasportarlo dopo averlo ucciso. La canzone dice questo. “Le mie zampe sono sulla corona di corna, cosa mi sta accadendo?”. Accade che le sue zampe sono state messe lì dai cacciatori, per permettere un più facile trasporto del corpo. Lui stesso descrive la sua condizione, usando queste parole e cantando la sua tragica vicenda. È stato ucciso, ucciso da un arco di legno. Ucciso e preso, ucciso e preso Lì nel selvatico Sono stato ucciso e preso Sono stato colpito infine Lì nel bosco fiorito Ucciso e portato via Mi hanno catturato e trasportato Colpito a morte e portato via Yevuku Yelome mi ha sconfitto incantevolmente Laggiù Nel centro del piccolo bosco fiorito L’incantevole Yevuku Yelome Mi ha battuto meravigliosamente Ucciso e preso Lì nel bosco fiorito Adesso il cervo entra nel “rama”, viene trasportato lì. E continua a raccontare la sua stessa fine. “Sono stato ucciso e preso. Lì nel selvatico, sono stato ucciso” dice. “Gli incantevoli uomini cacciatori mi hanno preso” dice “Morte mi hai preso” dice. Sei disteso sulle frasche Animale divenuto fiore Corpo divenuto fiore Adesso sei esanime sulla legna Animale fiorito, corpo fiorito Ed il corpo è un fiore E sei esanime disteso sulla brace “Io sono di Yevuku Yelome il mio corpo è ricoperto di fiori i fiori dal mondo incantato”. Ormai sta riposando in quel mondo l’animale ricoperto di fiori dal corpo divenuto fiore. Queste parole sono pronunciate dai cantanti che si rivolgono al cervo. “Sei disteso sulle frasche, animale ricoperto di fiori, corpo divenuto fiore” recita la canzone. “Nel patio fiorito di Yevuku Yelome arriva ogni pianta del mondo selvatico. E tu ti trovi ormai disteso su quelle frasche, animale ricoperto di fiori, dal corpo divenuto fiore” dice la canzone. Distendici il cervo sopra. Ogni pianta va bene. Sul pakko c’è sempre del legno di cotone. Buttalo sul rama e sulla strada ci sarà del legno di cotone. Questo va bene per lui, per il cervo. Lì è il luogo in cui sarà macellato, dove i pakkolam lo macelleranno. Quando l’avranno messo lì sopra, sarà coperto con un vecchio sacco o una coperta. E la canzone riprende quando il cervo viene disteso sulla legna. Ma allora, il flauto suonerà diversamente; comincerà ad intonare un’altra canzone. Mentre lo distendono sulle frasche, i flauti iniziano a suonare la canzone della Mosca Chiazzata. I cantori del cervo non sanno la canzone della Mosca Chiazzata, solo i flauti la conoscono. Allora, i pakkolam reciteranno con questa canzone. Reciteranno intorno al cervo, lo ingiurieranno. Ed allora diranno “macelliamolo subito” e la macellazione ha inizio. Metti un fiore sopra di me Un fiore preso dall’animale fiorito Dal corpo divenuto fiore Oh, metti un fiore sopra di me Un fiore preso dall’animale fiorito Dal corpo divenuto fiore Oh, regalami uno dei fiori Sbocciati dal corpo dell’animale Io sono laggiù Lungo il sentiero fiorito ricoperto di fiori Sono immobile Coperto di polvere Sono immobile Coperto di bruma Immobile “Metti un fiore sopra di me Un fiore preso dall’animale fiorito Dal corpo divenuto fiore” Vedi, ora si è alzato il vento, un vento polveroso. Tolosailo: questo è il nome del vento polveroso e grigio. E polverosa e grigia è l’aria che si respira fuori dal giardino di Yevuku Yelome. Quell’albero, come quelli laggiù nel giardino fiorito, sì, quell’albero sta parlando. Quando il cervo sarà stato disteso sulle frasche, l’albero chiederà la coda, la coda del cervo. I cacciatori del cervo taglieranno la coda e l’appenderanno sull’albero. Questo è quello che l’albero sta chiedendo: l’albero sta chiedendo la coda. “ Metti un fiore sopra di me. Un fiore preso dall’animale fiorito. Dal corpo divenuto fiore”, dice. L’albero chiede questo ai cacciatori. Vuole che loro appendano la coda del cervo ad uno dei suoi rami. L’albero che sta nel patio la vuole come decorazione, vuole la coda del cervo “fiore”. Il mio incantevole corpo È diventato fiore Sta bruciando sopra il fuoco E un fianco scivola sull’altro Vedo il mio corpo fiorito Sulla brace incandescente Appoggiato su un fianco E poi sull’altro Il mio corpo fiorito Si illumina al fuoco Immobile su un fianco E poi sull’altro Io sono laggiù, nel giardino fiorito Ricoperto di fiori di Yevuku Yelome Qui d’incanto Mi diffondo nell’aria L’aria è intrisa di me Ed io divento fiore Mio incantevole corpo divenuto fiore Fuoco sopra al fuoco Un fianco appoggiato all’altro La carne del cervo, arrostita sulla brace, continua a parlare. Diventerà spiedini. “Mio incantevole corpo fiore, fuoco sopra al fuoco, un fianco appoggiato all’altro, spiedini” dice. “Il giardino fiorito di Yevuku Yelome” dice “Qui mi diffondo e divento fiore” dice. Lo spirito del cervo è ancora nel mondo selvatico. Il cervo svela questo di sé. Canta così. Il mio incantevole corpo divenuto fiore sta risplendendo Appoggiato lì fuori di me Una parte del mio corpo fiorito brilla Fuori dalla mia pelle Io sono sempre laggiù nel giardino fiorito Coperto di fiori di Yevuku Yelome E risplendo Fiori dalla mia pelle E le mie essenze si diffondono nell’aria Divento evanescente Il mio incantevole fiore corpo sta risplendendo Appoggiato fuori di me Interiora, budella di cervo. Qui la canzone parla di budella. Ma non uno stecco, né buono né bello è rimasto non è rimasto più nulla di me né di commestibile né di utile neppure uno spiedino non c’è altro di me che sia rimasto in questo mondo null’altro Io ormai sono al centro Del mondo selvatico coperto di fiori Lì nel selvatico Sono qui, buono e bello Ma di quell’altro me Non è rimasto nulla Né di buono né di bello Finisce con queste strofa la canzone. I pakkolam usciranno di scena uno per volta, spingendosi fuori l’uno con l’altro. L’ultimo resta al centro della scena e si lascia cadere. Cadrà per terra, disteso, agonizzante. Sforzandosi punterà la testa verso il centro del rama. Gli altri torneranno, dopo aver preso un vecchio sacco o una coperta. La bagneranno con dell’acqua e lo ricopriranno. Così coloreranno la pelle del cervo. Quando avranno finito usciranno e con quella stessa coperta picchieranno gli spettatori dicendo che stanno ancora colorando la pelle del cervo . Questo sarà l’ultimo gesto, non ci sarà nient’altro. Lì finisce la caccia.

RITO DI PURIFICAZIONE NELL’ACQUA

ZUNI Quella che segue è la traduzione di una canzone, facente parte di una serie, che accompagna un’importante rito religioso degli Zuni (uno dei gruppi indiani dei Pueblo del New Mexico). La canzone appartiene alla Società del Grande Fuoco (società di uomini e donne che hanno il compito di curare). I riti poetici o narrazioni sacre degli Zuni, generalmente, sono organizzati entro alcuni gruppi principali fondati sulle basi di componenti astronomiche temporali (come l’annuario e il giornaliero viaggio del sole, le ricorrenze delle fasi lunari, eccetera). Si può notare come le varie sessioni della serie di canzoni siano determinate da frasi che si riferiscono ad eventi di tempo o ad elementi direzionali. Ogni direzione è relazionata ad un particolare bestia-divinità e colore; uno schema cosmologico che include i sei monaci della pioggia delle sei direzioni, sei venti-porta-pioggia, sei specie di uccelli, sei specie di alberi, e così proseguendo in un “infinito” ciclo di diversi elementi in relazione fra loro. Le sei bestie-divinità, nella mitologia Zuni, fanno la guardia al mondo. Essi sono: il Leone di Montagna Giallo dal Nord; l’Orso Blu dall’Ovest; il Tasso Rosso dal Sud; il Lupo Bianco dall’Est; l’Aquila Splendente o Multicolore dallo Zenit; la Talpa Nera del Nadir. RITO DI PURIFICAZIONE NELL’ACQUA Silenziosamente dovrei posare la mia coppa di conchiglia bianca. Sono trascorsi abbastanza giorni da quando Nostra Madre la Luna, lì dall’Ovest, appariva ancora piccola; ora, lì dall’Est, piena sopra l’orizzonte, muta i suoi giorni in esseri finiti. Nostri emergenti bambini, quelli che aspirano ad invecchiare, portate la sacra farina di granturco, portate la conchiglia, lì, pregando, faremo in modo che le vostre strade proseguano. A coloro a cui è stato attribuito il mondo dal principio dei tempi: le selve, le foreste, lì c’incontriamo. Ai piedi dei Fortunati*, volgendoci nelle direzioni sacre, dalle impronte delle nostre dita offriamo: sacra farina di granturco, conchiglia. *Tutti gli esseri soprannaturali. Uniamoci alle strade sacre dei Fortunati che tirano i germogli attraendoli, che quietamente stanno lì reggendo le loro vecchiaie, reggendo le loro strade finite. Uniamoci alle strade sacre dei Padri della luce del giorno, delle nostre madri, dei nostri bambini, nella camera dell’acqua che risana. Sono passati abbastanza giorni da quando gli indovini, con noi bambini, hanno vissuto i loro giorni sulla terra. Ora, in questo stesso giorno per i monaci, per le loro cerimonie, abbiamo preparato i bastoni delle preghiere. Quando Nostro Padre il Sole sta andando nel posto sacro del governo per sedersi, quando rimane ancora un po’ di spazio, ancora prima che raggiunga il sacro lato sinistro del potere, ai Nostri Padri offriamo i bastoni delle preghiere, nelle nostre case portiamo le strade sacre. Lì, da tutte le direzioni, porteremo fuori le sacre strade dei Nostri Padri e degli indovini, senza tralasciare nessuno. Nostri Padri. che avete completato le vostre strade di cumuli di nuvole, che avete espanso la vostra coperta di vapore, che avete allungato le strade sacre della vita, che avete eretto archi di arcobaleni colorati, che avete lanciato le vostre frecce di fulmini, dovrei sedermi silenziosamente. Voi, Nostri Padri, lì arriverete da tutte le direzioni. Dal NORD, i monaci della pioggia, faranno procedere le loro strade sacre portando le acque che risanano. Quattro volte, faranno entrare le loro strade sacre lì, dove sta la mia coppa di conchiglia bianca. Dall’OVEST, i monaci della pioggia, faranno procedere le loro strade sacre portando le acque che risanano. Quattro volte, faranno entrare le loro strade sacre lì, dove sta la mia coppa di conchiglia bianca. Dal SUD, i monaci della pioggia, faranno procedere le loro strade sacre portando le acque che risanano. Quattro volte, faranno entrare le loro strade sacre lì, dove sta la mia coppa di conchiglia bianca. Dall’EST, i monaci della pioggia, faranno procedere le loro strade sacre portando le acque che risanano. Quattro volte, faranno entrare le loro strade sacre lì, dove sta la mia coppa di conchiglia bianca. Dal SOPRA, i monaci della pioggia, faranno procedere le loro strade sacre portando le acque che risanano. Quattro volte, faranno entrare le loro strade sacre lì, dove sta la mia coppa di conchiglia bianca. Dal SOTTO, i monaci della pioggia, faranno procedere le loro strade sacre portando le acque che risanano. Quattro volte, faranno entrare le loro strade sacre lì, dove sta la mia coppa di conchiglia bianca. Quando vi sarete seduti silenziosamente, i nostri bambini berranno le vostre acque che risanano. Le loro strade sacre raggiungeranno il lago di sotto, e allora anche le loro strade saranno finite. Ma ancora di più, dal NORD, tu che sei mio padre, LEONE DI MONTAGNA, colui che completa le mie strade, tu che sei il mio monaco; portando le tue medicine farai arrivare le tue strade sacre. Quattro volte, vegliando sul mio emergere, farai entrare la tua strada sacra dove sta la mia coppa di conchiglia bianca. Quando vi sarete seduti silenziosamente, saremo una sola persona. Ma ancora di più, dall’OVEST, tu che sei mio padre, ORSO, colui che completa le mie strade, tu che sei il mio monaco; portando le tue medicine farai arrivare le tue strade sacre. Quattro volte, vegliando sul mio emergere, farai entrare la tua strada sacra dove sta la mia coppa di conchiglia bianca. Quando vi sarete seduti silenziosamente, saremo una sola persona. Ma ancora di più, dal SUD, tu che sei mio padre, TASSO, colui che completa le mie strade, tu che sei il mio monaco; portando le tue medicine, farai arrivare le tue strade sacre. Quattro volte, vegliando sul mio emergere, farai entrare la tua strada sacra dove sta la mia coppa di conchiglia bianca. Quando vi sarete seduti silenziosamente, saremo una sola persona. Ma ancora di più, dall’ EST, tu che sei mio padre, LUPO, colui che completa le mie strade, tu che sei il mio monaco; portando le tue medicine, farai arrivare le tue strade sacre. Quattro volte, vegliando sul mio emergere, farai entrare la tua strada sacra dove sta la mia coppa di conchiglia bianca. Quando vi sarete seduti silenziosamente, saremo una sola persona. Ma ancora di più, dal SOPRA, tu che sei mio padre, AQUILA, colui che completa le mie strade, tu che sei il mio monaco; portando le tue medicine, farai arrivare le tue strade sacre. Quattro volte, vegliando sul mio emergere, farai entrare la tua strada sacra dove sta la mia coppa di conchiglia bianca. Quando vi sarete seduti silenziosamente, saremo una sola persona. Ma ancora di più, dal SOTTO, tu che sei mio padre, TALPA, colui che completa le mie strade, tu che sei il mio monaco; portando le tue medicine, farai arrivare le tue strade sacre. Quattro volte, vegliando sul mio emergere, farai entrare la tua strada sacra dove sta la mia coppa di conchiglia bianca. Quando vi sarete seduti silenziosamente, saremo una sola persona. E più ancora dal NORD, montagne muscose, vette delle montagne, pendii a picco, dirupi senza fondo, voi che reggete il mondo; antica pietra GIALLA porta qui la tua strada sacra. Quattro volte, farai entrare la tua strada sacra dove sta la mia coppa di conchiglia bianca. Quando vi sarete seduti silenziosamente, i nostri bambini berranno le vostre acque che risanano. Le loro strade sacre raggiungeranno il lago di sotto, e le loro strade saranno finite. E più ancora dall’OVEST, montagne muscose, vette delle montagne, pendii a picco, dirupi senza fondo, voi che reggete il mondo; antica pietra BLU porta qui la tua strada sacra. Quattro volte, farai entrare la tua strada sacra dove sta la mia coppa di conchiglia bianca. Quando vi sarete seduti silenziosamente, i nostri bambini berranno le vostre acque che risanano. Le loro strade sacre raggiungeranno il lago di sotto, e le loro strade saranno finite. E più ancora dal SUD, montagne muscose, vette delle montagne, pendii a picco, dirupi senza fondo, voi che reggete il mondo; antica pietra ROSSA porta qui la tua strada sacra. Quattro volte, farai entrare la tua strada sacra dove sta la mia coppa di conchiglia bianca. Quando vi sarete seduti silenziosamente, i nostri bambini berranno le vostre acque che risanano. Le loro strade sacre raggiungeranno il lago di sotto, e le loro strade saranno finite. E più ancora dall’EST, montagne muscose, vette delle montagne, pendii a picco, dirupi senza fondo, voi che reggete il mondo; antica pietra BIANCA porta qui la tua strada sacra. Quattro volte, farai entrare la tua strada sacra dove sta la mia coppa di conchiglia bianca. Quando vi sarete seduti silenziosamente, i nostri bambini berranno le vostre acque che risanano. Le loro strade sacre raggiungeranno il lago di sotto, e le loro strade saranno finite. E più ancora da SOPRA, montagne muscose, vette delle montagne, pendii a picco, dirupi senza fondo, voi che reggete il mondo; antica pietra MULTICOLORE, porta qui la tua strada sacra. Quattro volte, farai entrare la tua strada sacra dove sta la mia coppa di conchiglia bianca. Quando vi sarete seduti silenziosamente, i nostri bambini berranno le vostre acque che risanano. Le loro strade sacre raggiungeranno il lago di sotto, e le loro strade saranno finite. E più ancora da SOTTO, montagne muscose, vette delle montagne, pendii a picco, dirupi senza fondo, voi che reggete il mondo; antica pietra NERA, porta qui la tua strada sacra. Quattro volte, farai entrare la tua strada sacra dove sta la mia coppa di conchiglia bianca. Quando vi sarete seduti silenziosamente, i nostri bambini berranno le vostre acque che risanano. Le loro strade sacre raggiungeranno il lago di sotto, e le loro strade saranno finite.

NANABUSH SCIUPA IL POTERE RICEVUTO DALLA PUZZOLA

OJIBWE La narrativa Ojibwe, come tutte le letterature orali, era importante nella trasmissione e nel consolidamento dei valori tradizionali. L’arte verbale degli Ojibwe si distingue in due categorie: la prima comprende notizie, aneddoti e storie di eventi importanti. Storie che spaziano dagli avvenimenti accaduti nella vita di tutti i giorni ad esperienze molto più eccezionali che volgono verso il leggendario. La seconda categoria della narrativa involge i miti Ojibwe: storie sacre sui manitok (altra forma di “potenti” esseri umani) e sui morti. Le seconde sono più classiche e formali delle prime. Il tempo per la loro narrazione era ristretto all’inverno quando gli Ojibwe, nelle loro piccole unità familiari, cacciavano per procurarsi il cibo. Raccontavano le loro tradizioni in inverno perché i manitok vivono sott’acqua e, nella stagione fredda, essendo ibernati non possono sentire. Il grosso di questa seconda categoria di storie racconta le tribolazioni di Nanabush (o Nanabozho). Una metà di questo materiale lo descrive come un sapiente eroe, l’altra metà nella ruolo dell’imbroglione. Da eroe ha creato il mondo in cui viviamo con tutti i suoi modelli primordiali. I miti della creazione contemplano molte gesta di Nanabush: dalla sua stessa nascita a quando, dopo il diluvio universale, ha creato il mondo presente. C’è una relazione d’intima identificazione fra le gesta leggendarie di Nanabush, che confermano la loro natura di cacciatori, e gli Ojibwe. Nanabush intercede fra gli uomini e i manitok; serve come ideale modello da imitare; inventa esempi per la cultura utilitarista; ha grandi capacità di sussistenza; ha scoperto il riso; ha raccontato agli uomini come fare le medicine con le piante che guariscono. Nella veste d’imbroglione squilibrato, stregone e manipolatore di parenti, era un esempio di comportamento da evitare. Un modo di fare contrario ad ogni regola della società Ojibwe e che, quindi, propone una forma di educazione negativa per tutte le età. Le sue azioni, come i patimenti conseguenti alla disobbedienza, servono da monito per un più appropriato comportamento. NANABUSH SCIUPA IL POTERE RICEVUTO DALLA PUZZOLA Come al solito se ne andava in giro a piedi. Fino a che, arrivato sul ghiacciaio di un lago, vide un abete. Allora pensò: “Non ci sono dubbi, qualcuno vive lì.” Continuò il cammino. Incontrò un buco per attingere l’acqua sul ghiaccio; un buco fatto con le budella di alce. L’incavo era davvero molto grande. Lo avrebbe voluto per se. Ci allungò le mani sopra. Ma udì la voce di qualcuno che disse: Ehi, Nanabush! Metti giù le mani. Se lo prendi, ce ne servirà un altro! Lo lasciò stare. “Vieni qui”, disse. E lui risalì dal lago. Gli offrirono del cibo; lui ne mangiò. Avrebbe voluto lasciarsene un po’. “Mangia tutto quello che ti ho preparato”, disse. E lui lo mangiò tutto. S’accorse di quanto fosse grosso quello che gli parlava. “Nanabush, sembri molto affamato”. “No”, rispose. “No? Nanabush, tu sei alla fame! Si vede che hai tanta fame. Lo dico per te, per farti avere una grazia”, disse. “Si, mio giovane fratello, ho davvero fame”, rispose. “Bene – gli fu detto – allora t’insegnerò quello che dovresti fare”. Gli fu dato un piccolo flauto. “E’ questo – disse – quello che dovrai usare. Quando ritornerai a casa, la tua anziana donna dovrà costruire una lunga casa; dovrà essere una casa molto lunga. Ti do anche questo, per quando sarà finita, con questo ucciderai quelli che entrano in casa. Fai esattamente come t’ho insegnato”; gli fu detto. Era la Grande Puzzola che stava parlando. “Ti darò la possibilità di farne uso per due volte – disse – di questa cosa che userai per ucciderli. Ora inginocchiati e appoggiati sulle mani”, disse a Nanabush. Con grande consapevolezza si piegò su mani e ginocchia. Si posizionò in faccia al suo di dietro, e fu coperto da una grande puzza. Questo è quello che gli fece. E, questo, è quello che gli disse: “Per favore, Nanabush, fai attenzione – disse – o potresti far male ai tuoi bambini”; gli fu detto. “Quando tornerai a casa dovrai rigorosamente fare così: Soffierai una melodia sul tuo flauto, alcune alci andranno in casa tua. N’entreranno abbastanza, poi faranno così: cammineranno intorno dentro la tua lunga casa. Dopo, quando verrà fuori il capo branco, tu gli farai una puzza per ricacciarlo dentro. Così, anche tutte quelle dentro, moriranno. E tu avrai il cibo per svernare. Se ne vorrai ancora, quando le avrai mangiate tutte, potrai soffiare un’altra volta sul flauto. Così potrai attraversare l’inverno, senza aver mai più fame. Questo è tutto quello che dovevo insegnarti”; gli fu detto. Nanabush si rimise sulla sua strada. Era davvero molto fiero. Ora, nel momento che stava camminando per la sua strada, vide un albero davvero grande. “Chissà se il mio giovane fratello m’ha detto la verità – pensò – quasi, quasi… gli faccio una puzza!” Pensò Nanabush. E davvero fece una puzza sul grande albero; che marcì completamente. “Sembra che il mio giovane fratello m’abbia detto la verità!” pensò. In un momento mentre ancora una volta camminava per la sua strada, vide una grande roccia oltre il versante opposto delle colline. “Eppure – pensò ancora – io continuo a chiedermi se mi ha detto la verità”. “Quasi, quasi… farei un’altra prova sulla roccia”, pensò. E davvero fece ancora una puzza. Quando guardò, di quella grande roccia, non era rimasto niente. Colui che aveva avuto pietà di lui sentì voci a proposito di quello che lui stava facendo. “Com’è stupido, da parte di Nanabush, non fare attenzione; sta portando la rovina sui suoi bambini.” Nanabush si drizzò in piedi. Andò là dove c’era la roccia. Riuscì a trovare dei pezzetti di roccia sparsi qua e là solo dopo una persistente ricerca. “Che il mio giovane fratello abbia detto la verità – pensò Nanabush – è un fatto concreto!” Ritornato a casa disse: “Vecchia donna, sono stato benedetto;” disse alla sua vecchia donna. Poi continuò: “Domani – disse a sua moglie – costruiremo una casa molto lunga!” Costruirono una casa, davvero, molto lunga. Alla fine, disse alla sua vecchia donna: “Siediti!” E rimasero seduti. Soffiò una melodia sul flauto. Vide alcune alci correre verso la casa, per davvero. “Sono certa, non ho alcun dubbio – gli disse la moglie – che non hai obbedito alle istruzioni”. Le alci entrarono in casa, per davvero. Il capo branco uscì di casa. Nanabush tentò una puzza; ma non era più capace di fare le puzze. Ora aveva fatto arrabbiare la donna, per davvero. “Non fai mai attenzione né a cosa ti viene detto e né a chi te lo ha detto!” gli disse la sua vecchia donna. Tutto quello che poteva fare era aprire e chiudere le chiappe. Ma non poteva fare puzze. Fece arrabbiare sua moglie, l’aveva fatta arrabbiare per davvero. Tutte le alci riuscirono. Per davvero aveva fatto arrabbiare sua moglie. Le alci ripresero il loro cammino fuori dalla casa. La vecchia donna riuscì a colpire l’ultimo che usciva. Ruppe la gamba ad un giovane alce. “Sei proprio un babbeo! Ma non t’hanno detto come avresti dovuto fare?” “Veramente si! Mi era stato dato il potere di uccidere tutte le prede che entravano nella casa per due volte… o no?” Per i due miserabili non c’era nulla da mangiare. Lei aveva rovesciato le budella dell’alce. Ci foderò il buco per attingere l’acqua. Lui sapeva che loro avevano un gran bisogno di cibo, Lui che, invano, s’era preso pietà per Nanabush. “Per questo andrò da lui”, fu il pensiero che da Lui arrivò a Nanabush. Questa volta fu la Grande Puzzola a partire per davvero. In breve arrivò fino a dove stavano loro. “Che cosa t’è successo;” Gli disse. Il budello dell’alce foderava il buco sul lago dove attingevano l’acqua. “Ma come si può compiere un’idiozia così, Nanabush!” E rise di lui. Questo è quello che disse a Nanabush: “Cos’è successo, Nanabush?” chiese la Puzzola. “Dopo averti lasciato, mio giovane fratello, quando ero circa a metà strada, feci puzze su un grande albero e su una grande roccia. Si l’ho fatto ma ho provato pietà”. “Allora – disse – avrò ancora pietà di te.” Poi disse: “Sono venuto fin qui per benedirti ancora.” E, Nanabush, fu ancora ricoperto di puzza. “Ora non rifarlo un’altra volta!” Gli diede quello che avrebbe potuto usare ancora due volte. E si rimise sulla strada che lo riportava a casa. La moglie lo prevenne dal far puzze. Seriamente. Al tempo giusto lui soffiò una canzone sul flauto. Vide le alci arrivare ed entrare nella lunga casa ancora una volta. Poi, quando questi tento d’uscire, fece una puzza sul capo branco. Stavolta morirono tutti. Guardarono dentro: il posto dove vivevano era pieno delle alci ch’avevano ucciso. Ora, le miserabili creature, avevano tutto il cibo di cui abbisognavano. La moglie disse. “Per favore, cerca di fare attenzione e di non buttare i resti, se non vuoi affamare i bambini.” Ora, con le alci trattate per l’uso, sentivano di poter attraversare l’inverno, tranquillamente. “E’ abbastanza probabile che potremo attraversare l’inverno;” disse alla moglie. “E’ abbastanza probabile;” si sentì dire. “Siamo stati veramente benedetti;” disse la moglie al marito. E questo è tutto quello che so.

WAKINYAN E WAKINYAN WICAKTEP TUONO E QUELLI UCCISI DA TUONO

LAKOTA Gli hejoka avevano il potere, se lo desideravano, di deviare i distruttivi fulmini che tanto frequentemente cadevano sulle Grandi Pianure. Lenivano il male, ma lo potevano anche acuire. Gli heyoka giocavano un ruolo molto importante all’interno del cerchio dei villaggi lakota. Il loro clownesco comportamento divertiva la gente e, allo stesso momento, portava all’attenzione i comportamenti devianti, le azioni e i fatti non accettabili dalla società. Facendo ridere, con le loro mosse grottesche, provvedevano al necessario sollievo del popolo dal rigido codice del conformismo sociale lakota; codice morale che gli heyoka erano liberi di ridicolizzare. Sollevando l’atmosfera nei momenti più duri erano capaci di mandare segnali di ammonimento quando la società si faceva compiacente. Mettevano all’indice il potenziale pericolo e, sempre con le burla, annunciavano le conseguenze che derivano dalla non vigilanza; mettevano in allerta il villaggio sulle potenzialità negative dell’azzardata situazione. Racconto descrittivo delle tradizioni della tribù Lakota Quello che la gente comune dice degli Uomini Tuono e degli Heyoka WAKINYAN E WAKINYAN WICAKTEP TUONO E QUELLI UCCISI DA TUONO Si dice che gli Uomini Tuono vivano ad Ovest perché è da li che vengono. Sono considerati i guerrieri del Mistero Finale. Le Great Mountains sono la loro casa. Uccidono chiunque non rispetti le loro leggi. Degli Uomini Tuono, si dice, che vivano alla maniera della gente comune. Ma in più, viaggiano in tutto il mondo, lo nutrono, viaggiando causano la caduta delle piogge. Fanno si che la terra cresca tante cose straordinariamente belle e, così facendo, aiutano gli animali e gli uomini a prosperare in abbondanza. Lì, dove la terra ha subito un danno, loro arrivano a ripulirla con la pioggia, lavando via tutto ciò che ha causato il danno. Cielo, terra e acqua sono gli esseri che gli Uomini Tuono stimano su tutti. Quello, fra tutti i quadrupedi della terra, è il cavallo; per quanto anche tutti gli altri quadrupedi, per loro, sono importanti. Quelli fra gli alati del cielo sono: il gabbiano, il falco, l’allodola e le rondini. Fra gli esseri acquatici quelli più apprezzati sono la rana e il tritone perché arrivano giù sulla terra con le piogge. Per quanto, animali non esclusi, possano essere tante le ragioni che mandano i fulmini a folgorare le cose, si dice che se si impegna a celebrare certi riti, quando una persona sogna degli Uomini Tuono, solo il fallimento nel compimento di quegli obblighi comporterà la sua morte tramite fulmine. Quelli che sono stati uccisi dai guerrieri degli Uomini Tuono, si dice, che furono colpiti in cima alla testa. Quello colpito dal fulmine aveva i capelli in cima alla testa arruffati come una palla. E’ per questo che gli heyoka con i capelli in cima alla testa ci fanno un nodo. Se qualcuno non fa come gli è stato insegnato nella visione o nel sogno arrivato dagli Uomini Tuono, si dice, che un fulmine lo farà per lui. Viaggerà attraverso il suo corpo arricciandogli le membra, segnandolo nel modo che avrebbe dovuto dipingere se stesso; per questo, coloro che sognano i tuoni, hanno l’usanza di dipingersi il corpo e le membra in quella maniera. Si dice che i fulmini tempestino il palco della sepoltura, quando una persona uccisa dai fulmini viene messa sul palco della sepoltura. La persona colpita dal fulmine veniva portata nel dominio degli Uomini Tuono per vivere lì con loro. Quando vengono gli esseri tuono da Ovest, perlomeno così si dice, alcuni fra quelli che arrivano hanno il permesso di scagliare le folgori che uccidono. Gli esseri tuono dicevano a quello da folgorare: “Silenziosamente e delicatamente (nel sogno) andrai dalla tua gente. Avrai compassione di loro perché pensano di essere nel giusto ma, la sapienza che gli uomini credono di avere, tale non è – gli dicono – ad ognuno di loro tu svelerai la verità.” Gli altri heyoka pregheranno per lui e lo onoreranno per tutto ciò che vogliono o abbisognano, si dice. Un uomo che sognò i tuoni raccontò del suo sogno: “Ho sognato di stare nel paese degli esseri tuono. Un’allodola venne da me proveniente da ovest e saltai in aria come un saetta. Quando ripresi conoscenza ero nel grande villaggio degli esseri tuono. Erano gente comune che aveva dipinto il proprio corpo di grigio bianchiccio. Gli arti erano dipinti con strisce a zigzag rosse, più o meno larghe come una mano.” Mi dissero: “Da ragazzo, così come da uomo o da vecchio, si sempre lucidamente conscio che i riti che vedrai saranno esattamente come quelli che rivelerai alla tua gente.” Un heyoka, impaziente di eseguire il rito del prelievo dal bricco bollente, si rivolse a quello che aveva viaggiato nella terra degli esseri tuono dicendogli: “Ho avuto una visione in sogno. Da quel momento sento urla di guerrieri ogni volta che arrivano gli esseri tuono.” A questo, quello che aveva visitato gli esseri tuono, replicò: “Ti stanno chiedendo di prelevare dal bricco alla maniera degli heyoka. Ora potrai mostrare alla gente come eseguire nel modo giusto questo rito.” In quel momento lo heyoka fu pronto per eseguire il rito. Fu eretto nel centro del villaggio, fatto di vecchie e affumicate pelli di scarto, un piccolo tepee. Il tepee fu circondato dal gruppo di heyoka che già avevano rivelato i loro sogni avuti dagli esseri tuono. Non usarono tante pertiche come si fa per un normale tepee, ma ne usarono due per reggere il passaggio del fumo. Poi invitarono ad entrare tutti gli altri seguaci della Società Heyoka che già avevano eseguito i loro riti. Gli heyoka scelsero uno fra di loro. Il nuovo heyoka, quello che doveva eseguire il rito per la prima volta, fu toccato dal prescelto della Società Heyoka per prendere coscienza del nascente potere. Lo heyoka prescelto, mentre dipingeva quello nuovo, spiegava come lo stava dipingendo. Gli disse, anche, che avrebbe dovuto cavalcare un cavallo multicolore. A loro volta, tutti gli altri heyoka, si unirono per finirlo di dipingere. Il corpo fu dipinto di grigio bianchiccio; le membra con strisce zigzagate di colore rossiccio, come i fulmini. I capelli furono tirati davanti, arrotolati e legati in modo che pendolassero sulla fronte. Una pianta di Psoralea (ticanica hu) fu legata al nodo di capelli penzolante. A quel punto, si vestirono anche gli altri heyoka. Con vecchie pelli di tipi di scarto, a cui praticarono fori molto imprecisi, fecero dei gambali. E li indossarono come gambali. Con le stesse pelli, pure forate, fecero le maglie che indossarono. Il pericardio del bufalo, che gli copriva anche la faccia, lo usarono come copricapo. Sulla cima del cappuccio ci fecero un buco, dal quale penzolava una treccia. Prese due pezze, di vecchie pelli di daino di tepee di scarto, ci sagomarono due orecchini; grandi, circa, come il palmo di una mano. E li appesero agli orecchi. Dietro la testa gli penzolava una fila di piume di ali di corvo fissate su una striscia di pelle grezza imperlata alla base. Un arco fatto alla svelta, uno scudo e due o tre frecce costituivano il resto del costume. Questi archi non erano affatto funzionali, perché fatti alla svelta e senza cura. Ora, abbigliato nello stile che ho detto, lo heyoka stava per adempiere ai suoi obblighi. Era dipinto di grigio bianchiccio e fu messo su un cavallo multicolore con una lancia in mano. Cantò una canzone heyoka che diceva così: Viene una nube tonda Viene una nube tonda M’ avvio sul sentiero sacro con un voto per me stesso Viene una nube tonda M’ avvio sul sentiero sacro con un voto per me stesso Poi infilò una lingua di bufalo con la sua lancia e la tirò fuori dal bricco. Tutti gli heyoka, allora, si avvicinarono al bricco ed estrassero pezzi di bufalo con le mani nude. Poi si dispersero tra la folla portando pezzi di lingua di bufalo dovunque ci fossero seduti uomini di mezza età o più vecchi, ed offrendoglieli. Gli uomini, condividendo l’offerta di cibo, rispondevano: “Haye”. Ognuno rese omaggio al capo degli heyoka ed al nuovo heyoka. Dopo, per la gioia della folla, gli heyoka si esibirono in molte azioni comiche e buffe (com’è nella loro natura). Il nuovo heyoka aveva onorato i suoi obblighi verso gli esseri tuono, e la gente era felice per lui. Un giorno, si dice, che un altro uomo - che aveva ricevuto una visione – dopo essersi vestito secondo l’usanza heyoka, andò in giro per il villaggio facendo scherzi heyoka. I capelli scendevano sciolti, e su un solitario nodo di capelli aveva legato una fila di piume di ali di cervo. Aveva il torso dipinto di rosso e, sulle membra, aveva dipinto delle strisce a zigzag vermiglione che rappresentavano gli Uomini Tuono. Su piedi e mani aveva tracciato disegni forcuti. Indossò la sua veste di bufalo – con il pelo rivolto fuori – annodata all’altezza della gola. Portava un’imitazione d’arco ed alcune frecce storte insieme ad un tamburo colorato di rosso. Mentre bussava sul tamburo cantava questa canzone: Il potere del sole fa battere il mio cuore Torceva il corpo da una parte all’altra, mentre danzava in giro per il campo guardando a destra e manca. Ogni tanto soffiava s’un flauto ricavato da un osso d’ala d’aquila. Non faceva il prelievo dal bricco perché aveva ancora paura degli esseri tuono. Comunque, questa volta nel rispetto del rito, prelevò dal bricco. Lo fece una seconda volta ed ancora una terza. Da quel momento non ebbe più paura degli esseri tuono e si considerò un heyoka completo. Gli heyoka erano chiamati i “Non Grandi Fratelli”*. Parlavano ed agivano al contrario. Formarono una Società Heyoka e scelsero un giorno per celebrare la loro festa. Compievano i loro riti e le loro cerimonie cantando le canzoni heyoka alla gente. Circondavano il villaggio eseguendo le loro danze, cantando le loro canzoni, percuotendo il tamburo mentre cantavano. Non ballavano nel modo tradizionale ma saltando su e giù. * Non Grandi Fratelli (Ciyeku Sni) I membri della Società Heyoka potevano evocare tanto la parte luminosa che la parte scura del Mistero Finale (Taku Wakan) e, per questo, dai giovani del cerchio del villaggio, non erano considerati modelli da imitare. I membri delle società guerriere erano i Grandi Fratelli (Ciyekupi) dei giovani che mostravano capacità da combattenti. I guerrieri più famosi promettevano ai giovani che gli stavano più dietro d’insegnargli l’arte della guerra. Nello stesso modo, i giovani che promettevano capacità taumaturgiche, seguivano sempre gli uomini santi del villaggio.