lo scarabeo che caccia l'aquila
mercoledì 9 febbraio 2022
UNA STORIA DEL PARADISO
DUNNE – ZA
I Dunne-za, o Indiani Castoro, vivono della caccia nell’area del Peace River, a cavallo fra la British Columbia e l’Alberta. I Dunne-za credono che le storie vivano nelle vibrazioni del parlato con cui vengono descritte. Vivono nella memoria condivisa da dove le richiama il cantastorie e, anche, dove lui o lei la ripongono. L’inizio o la fine di una storia dipende dall’umore di chi la racconta e di chi l’ascolta; nella stessa maniera si seguono i canoni convenzionali della caratteristica dei vari personaggi o delle vicende. Una storia prende corpo, simultaneamente, nel tempo reale del suo narratore e nel tempo leggendario in cui accadde. “Una storia del paradiso” è l’onirica trasposizione dell’universo Dunne-za in quello della Cristianità. Una storia nata nel sogno dall’incontro fra il narratore e suo padre. Dove il padre parla della nuova strada sulla parte destra della pista che conduce in paradiso. Rimane difficile stabilire se si tratta di una versione Dunne-za del Vangelo o di una versione Cristiana dello Sciamano che Controlla le Prede. Sicuramente, l’uccello del polo a guardia della porta del paradiso, appartiene all’antica tradizione sciamanica; così, come l’immagine di Dio che lascia cadere i messaggi nei foglietti di carta, è la risposta Dunne-za all’idea Giudeo-Cristiana di scrittura.
UNA STORIA DEL PARADISO
Mio padre parlava di un bellissimo posto.
Diceva: “Figlio mio è molto difficile andare in paradiso,
specialmente se infastidisci la gente bestemmiando, o rubando,
o commettendo brutte azioni; queste cose non le devi fare.
Per colpa di qualcuno, che va in giro raccontando frottole,
molte persone si uccidono l’uno con l’altro.
Questa gentaglia, raccontando fandonie
che trasformano le buone persone in cattive,
mente, fa del male; confezionando storie all’occorrenza,
realmente trasforma le buone persone in cattive persone.
Questa gente non può andare in paradiso.
Gesù, il figlio dell’uomo che ci ha fatto,
sapeva che se la strada fosse stata troppo ripida
sarebbe stato troppo difficile raggiungere il paradiso.
Per questo, quando lo uccisero, fece una buona strada.
La fece più corta; la fece più facile
per agevolare il passaggio delle persone buone in paradiso.
Fece questa strada nuova con parecchie curve.
E’ così che Gesù fece apparire la nuova strada.
Quando Gesù andò in paradiso,
dopo che lo avevano ucciso,
pensò che sarebbe stato molto difficile se la strada fosse stata tanto ripida.
Sul lato destro della nuova strada c’è una casa.
Da lì, quando ci arriviamo,
possiamo vedere un posto bellissimo.
Dove vive colui che tiene le chiavi della porta,
che detiene le prede e controlla gli animali:
alci, caribou ed ogni altra cosa che vive sulla terra.
Dalla casa, Gesù, bada agli animali.
Vede ogni cosa che fanno gli uomini.
Nulla Gli è nascosto,
qualsiasi cosa uno faccia,
lo sai di cosa parlo.
Non va bene se una donna mangia la carne fresca in certi periodi,
perché alle alci non piace.
Le alci lo sanno.
Le genti delle donne che lo fanno avranno povere alci senza grasso, difficili da scovare anche nei tempi in cui abbondano.
Gesù guarda giù e vede,
e rende difficile la vita degli uomini che fanno così.
Dio ha mandato Gesù in questo mondo per sorvegliare la gente.
Ed è per questo che Gesù fa così.
In questo mondo,
alla stessa maniera della piccola gente che vive nelle grotte di montagna, Gesù sorveglia gli uomini.
Quella gente, simile a Gesù, vive sul lato destro della via del paradiso.
Anche le alci sono così.
Lo sanno cosa fa la gente della loro carne.
La gente che tratta bene la loro carne non incontrerà alcuna difficoltà.
Questo tipo di persone che si prendono cura della loro carne:
quelle dove le donne che non dovrebbero mangiare carne fresca
se ne stanno lontano dalla carne fresca mangiando la carne secca,
uccideranno gli alci grassi e buoni da mangiare.
Questo è il regalo di Gesù per aver trattato bene la carne.
Dentro la casa, sul lato destro della strada per il paradiso,
Gesù spartisce cose molto belle.
Sul lato della casa, appollaiato in cima ad una pertica, c’è un uccello
che osserva i morti di questo mondo mentre attraversano la porta.
Lui, appena sono passati, comincia a cantare per dargli il felice benvenuto.
Gli da un bellissimo benvenuto.
Quando l’uccello incomincia a cantare lo sentono anche sopra in paradiso; e dicono:
“Qualcuno sta arrivando; quell’uccello dice che qualcuno sta arrivando”,
loro lo dicono.
Mio padre parla così, quando racconta le storie sul paradiso.
Mio padre parla così. Mio padre parla così.
Dio, prima, fece il mondo.
E’ così bello e potente che nessuno lo può guardare.
Ci sono case grandi come città; case così belle che, qualche volta,
anche la gente del paradiso prova timore ad entrarci.
Dio le ha fatte per la gente buona.
Ma, Dio, non abita neanche lì.
Lui ha un posto solo per Lui stesso,
più in su della cima del paradiso.
E’ talmente bello che nessuno può guardarlo.
E’ al di sopra delle persone che vanno in paradiso.
Quando vede che qualcosa non va bene,
scrive su un foglio e lo lascia cadere;
viene raccolto, e Gesù spiega alla gente come si deve fare.
Questa è la maniera che il Padre parla al Figlio,
quando vuole che sia fatto come dice Lui.
(Non può andarci di persona perché Lui è troppo bello.)
Mio padre è solito parlare così.
Quando una persona appare in paradiso,
questa persona viene trasformata in una nuova persona.
Gesù arriva in un lago bellissimo.
Lui è come il Padre,
lava la persona nel lago con le sue bellissime mani.
Tutti vengono lavati nel lago,
e diventano come gli uomini bianchi.
In questo mondo gli indiani appaiono poveri.
Lo sai come sono gli indiani.
Ma in paradiso sono le persone più belle,
proprio come quelle donne bianche nei giornali.
Proprio come quelle donne bianche nei giornali.
Gesù ti mostra tante fotografie di facce diverse.
Tu scegli quella a cui vuoi assomigliare,
ed anche i capelli.
Nessuno, in paradiso, ha lo stesso colore di capelli.
Del tipo di capelli che hai scelto, del tipo di faccia che hai scelto:
tu sarai esattamente in quel modo.
Dopo che hai scelto la faccia e i capelli
Lui ti porterà in un’altra camera per scegliere i vestiti,
i vestiti più belli che avrai mai visto.
Mai più, dopo che ti sarai vestito,
sarai il povero indiano che eri in questo mondo.
Dopo questo, quando sarai pronto, Lui ti manderà dai tuoi parenti.
Mai più, per te, ci saranno tempi brutti o dispiaceri.
Sarai sempre felice.
Per questo vi diciamo di essere buoni.
I giovani pensano che si muore per sempre, ma non è così.
Solo le persone cattive muoiono senza vedere la strada del paradiso.
Quando muore una persona buona la sua anima va in paradiso,
va dalla terra al paradiso attraversando la parte in mezzo.
Si va in paradiso, quando si lascia per sempre questo mondo.
L’anima parte nello stesso minuto in cui una persona muore,
non ce la fa ad aspettare.
Vede la buona strada del paradiso.
E va nel bellissimo paese lì sopra.
Per questo diciamo ai giovani di essere buoni.
Per voi cattivi sarà dura.
Mio padre parlava così.
Ed è così.
LA CANZONE DEGLI ATKAN ALEUTS
ATKAN ALEUTS
Il cantante e danzatore, in questa canzone Atkan, con la modestia di chi vuole diventare un cacciatore, descrive il fallimento della sua solitaria battuta di caccia col kayak. Ha inseguito un leone di mare e sta mestamente ritornando indietro ma, quando sente i tamburi che annunciano le danze di una festa, torna ad esprimere la sua gioia. Poi, appena ritornato, smette di cantare. E, quando quelli del cerchio seduti davanti a lui ricominciano a suonare il tamburo e a cantare, anche lui ritorna a ballare ed a comportarsi da cacciatore.
LA CANZONE DEGLI ATKAN ALEUTS
Furtivamente, senza dirlo a nessuno, oggi sono uscito con il mio kayak.
Remando da solo, guardandomi intorno, ho visto un animale, un leone di mare emergere gagliardo; ho smesso di remare e, di fronte a quanto accadeva, ho iniziato a pensare.
Ho pensato che, in un caso così, avrebbe fatto bene anche il peggior fannullone.
Ho deciso di tirarlo fuori e, afferrata la lancia che tengo sulla poppa del kayak, l’ho sguainata e puntata dritta.
Mi sono avvicinato, remando piano, è l’ho colpito ma non abbastanza forte da infilarlo.
Nel panico è schizzato via.
L’ho inseguito remando, l’ho colpito e ricolpito ma col solo risultato di spuntare la mia lancia.
Purtroppo ero uscito in segreto per non farmi vedere da nessuno,
ho guardato intorno per cercare qualcuno fino a che mi è venuto da piangere,
se ci fosse stato qualcuno con cui piangere.
Sono rimasto fermo lì per un po’, poi ho cominciato a remare indietro,
e quando ho attraccato, ritornato da colui che amo sopra a tutto e che è anche l’assistente del mio spirito: il tamburo, ho cercato di ascoltare attentamente, ma non ho sentito.
Ma – quando ho immaginato di ritrovarti – lì eri!
Prendi il tamburo, spalanca la bocca e canta, ora!
IL MITO DEL SOLE
KATHLAMET CHINOOK
La narrativa Kathlamet non racconta la nascita ma la fine del mondo.
Colui che arriva al sole è un prosperoso capo che, anche se non in seguito ad una cerimonia ufficiale, è accettato come genero e, generosamente, gli vengono offerti un’infinità di doni. Si pensa che questa storia sia la riflessione ad un’improvvisa catastrofe scaturita da un terribile contagio. Un desiderio di potere, a scapito della gente, che riflette la bramosia di ottenere e monopolizzare il controllo dei beni necessari, controllo arrivato alla foce del fiume Columbia con i bianchi. Lo stereotipo del “mitico carattere naturale”, presumibilmente, era stato ispirato ai Nativi dallo sbalorditivo senso di possesso innato nei bianchi. La distruzione è la conseguenza delle trasgressioni nelle relazioni con i provvidenziali, grandi poteri del mondo.
IL MITO DEL SOLE
In un luogo lontano sorgeva una grande città,
una città composta da cinque città minori.
Un solo uomo governava sull’unica stirpe che abitava questo regno.
L’uomo era solito uscire
Alle prime luci del mattino
Per ammirare, immobile, il sorgere del sole
Un giorno l’uomo disse a sua moglie:
“E se andassi in cerca della luce che fa splendere il sole?”
“Tu pensi che sia così vicina da poterci arrivare?
E vuoi dirigerti verso il sole?”
Gli rispose la moglie
Il giorno dopo
All’alba
L’uomo uscì dalla sua casa
E vide ancora una volta il sorgere del sole
Alla prima luce che sembrava giungere
Proprio da quella direzione
Chiamò sua moglie e disse:
“Mi confezionerai 10 paia di mocassini
e dei gambali per dieci persone”.
La moglie obbedì
Cucì mocassini per dieci persone
Ed altrettanti gambali
Il giorno dopo, all’alba
Lui partì per quello che si prospettava essere un lungo viaggio
E infatti camminò utilizzando tutti i mocassini
Ed i gambali che aveva
Camminò per cinque mesi
E consumò cinque paia di mocassini
E cinque di gambali
E camminò ancora
Per altri cinque mesi
Mettendo fine alle sue scorte di mocassini e di sandali
Infine giunse nel luogo da cui
lei si diffondeva;
arrivò proprio dove sembrava si trovasse la fonte
Della luce del sole.
E lì lui vide una casa
Aprì la porta ed entrò
In quella casa c’era una ragazza
E lui si fermò con lei.
In un angolo di quella abitazione
L’uomo vide appese alle pareti
Frecce, faretre cariche di frecce,
corazze di pelle di alce
corazze di legno
scudi, asce, clave da guerra, monili piumati.
Tutti questi oggetti del corredo di un guerriero
Erano appesi in quell’angolo della casa
Sulla parete opposta
Facevano mostra di sé
Coperte di pelle di capra di montagna
Coperte di alce dipinte
Pelli di bufalo
Vestiti di pelle rivoltata
Denti lunghi, collane di conchiglie
Denti corti
Infine, vicino alla porta
C’era appeso qualcosa
Ma lui non capì bene cosa fosse
L’uomo chiese alla ragazza
“Chi è il proprietario di quelle faretre?”
“Sono della madre di mio padre
Lei le custodisce per quando sarò pronta”
“E di chi sono le corazze di pelle di alce e le frecce?”
“Sono della madre di mio padre. Lei le custodisce in attesa del tempo in cui io sarò pronta”
“E le corazze di legno, gli scudi, le clave di osso e le asce, di chi sono?”
“Sono della madre di mio padre, e miei”.
Poi volgendo lo sguardo verso l’altra parete l’uomo chiese ancora:
“Chi è il proprietario di quelle pelli di bufalo, delle coperte di capra di montagna, di quei vestiti di pelle rivoltata?”
“Sono nostre, le custodisce la madre di mio padre in attesa del tempo in cui io sarò matura”.
Lui domandò di tutti quegli oggetti
Chi ne fosse il proprietario
Ed infine pensò
“Io prenderò questa donna”
Scesa la notte
l’anziana donna tornò a casa
attaccò al muro un’altra cosa
una cosa che risplendeva, accecante.
Era quella la luce che stava cercando
e che lui voleva per sé.
L’uomo decise di fermarsi in quella casa
Ci rimase per tanto tempo
Con la giovane donna.
La vecchia
andava via ancora prima dell’alba
E tornava a casa dopo il tramonto
Ogni giorno riportava diversi oggetti,
a volte frecce, a volte pelli, a volte corazze.
Ogni giorno.
Trascorse tanto tempo
E l’uomo cominciò a sentire
nostalgia di casa
Rimase a letto due giorni e due notti
Senza alzarsi.
La vecchia disse alla nipote:
“Avete litigato e lui si è offeso?”
“Non abbiamo litigato
E’ solo che lui sente nostalgia di casa”
Allora la vecchia disse all’uomo:
“Cosa desideri portare con te quando tornerai a casa?
La pelle di bufalo?”
Lui rispose: “No”
“Porterai via le coperte di capra di montagna?”
“No”
“Vorresti forse le corazze di pelle di alce?”
“No”.
Invano l’anziana donna gli mostrò gli oggetti
che si accatastavano in quella parte della stanza
Gli offrì tutto quello che aveva, ma lui voleva solo quella cosa…
Quella cosa unica
Tenuta lontano dalle altre
Quando porterà via con sé quella cosa
conservata lontano dalle altre
lui sarà libero di andarsene
E vagherà per il mondo
Fino a quando i suoi occhi potranno vedere.
Lui voleva a tutti i costi la fonte di quella luce che acceca
il cui splendore si irradia dappertutto
Lui non desiderava altro.
L’uomo, decise di parlarne con la compagna
“Quella donna deve darmi solo una cosa: il suo mantello”
Lei rispose:
“Non te lo darà mai.
In tanti le hanno chiesto di scambiarlo con cose preziosissime
Ma lei non l’ha mai fatto”
L’uomo si infuriò
E si mise a letto
E non si alzò per diversi giorni
La compagna allora
tornò ad offrirgli tutte le cose che possedeva
Gli mostrò tutti gli oggetti degni di un guerriero
che si trovavano ammucchiati in quell’angolo della stanza
Invano, lo implorò di scegliere tra quelle cose
Poi, in silenzio
scoraggiata e stanca
si diresse verso quella cosa tenuta da parte
Si avvicinò a quel mantello e disse solamente
“Lo vuoi? Prendilo!
Ma fai attenzione!
E ricorda che sei stato tu a volerlo
Io ho cercato di darti tutto l’amore che potevo
Non avrei potuto fare altro, dal momento che ti amo.
Prese il mantello
E l’appoggiò sulle spalle del marito
Poi gli consegnò un’ascia di pietra
E gli disse
“Ora puoi tornartene a casa”
E lui se ne andò
tornò sui suoi passi
non si fermò in nessun altro posto.
Arrivò nella città governata dal fratello di suo padre.
E quella cosa che aveva sulle spalle
cominciò a prendere vita
Quella cosa che tanto aveva desiderato, parlò
“Noi due colpiremo la tua città
Noi due colpiremo la tua città”.
Disse quel mantello che lui aveva tanto desiderato.
La sua ragione non riuscì ad opporsi
Fu come spazzata via
E lui espugnò, distrusse, rase al suolo,
la città del fratello di suo padre
E ne uccise tutti gli abitanti
Dopo essere ritornato in sé
vide tutta la devastazione da lui stesso portata
Vide le sue mani insanguinate
E gridò
“Sono pazzo. Ora mi accorgo di cosa realmente sia questa cosa!
Perché mai l’ho desiderata tanto?”
L’uomo allora cercò di togliersi di dosso quella cosa
Senza però riuscirci.
Sembrava che quel mantello
gli si fosse attaccato alla pelle.
L’uomo non poté fare altro che riprendere il suo cammino
E percorse un altro tratto di strada
Giunse nella città governata da un altro fratello del padre
Nuovamente egli perse la ragione
E nuovamente quella cosa parlò
“Noi due colpiremo la tua città
Noi due colpiremo la tua città”
Invano l’uomo cercò di zittirla
Quella cosa non tacque mai
Invano cercò di strapparsela di dosso per buttarla via
La sua mente tornò ad annebbiarsi
E lui distrusse la città dell’altro fratello di suo padre
Come aveva già fatto con quella precedente.
Quando tornò in sé
La città del fratello di suo padre
Era distrutta, sparita
La gente era tutta morta
Lui pianse
Invano cercò di passare tra due tronchi
per tentare di sfilarsi di dosso quel mantello
Quella cosa non si levava
Rimaneva appiccicata al suo corpo
come una seconda pelle
Tentò anche di colpire quella coperta
con dei sassi, scagliandoseli addosso
Ma si accorse che quella cosa
non poteva essere distrutta
Allora lui riprese il suo cammino
Ed arrivò nella città di un altro fratello di suo padre
La cosa che aveva voluto per sé
si rianimò ancora
“Noi due colpiremo la tua città
Noi due compiremo la tua città”
Fu nuovamente accecato
E distrusse anche questa città dell’altro fratello di suo padre
Come aveva fatto nelle due città precedenti
Distruzione, distruzione, distruzione, distruzione.
Ritornò in sé, come era sempre accaduto
E pianse, ancora
E si addolorò per la fine
che lui stesso aveva dato ai suoi parenti.
Per strapparsi di dosso quel mantello
tentò di gettarsi in acqua
ma non c’era modo di liberarsi di quella cosa
Invano si rotolò tra gli arbusti spinosi
Tentando di strappare e fare a brandelli quella cosa
Continuò a colpirsi con sassi sempre più grossi
Fino a che non perse le speranze
E la disperazione lo assalì
Non poteva fare altro che riprendere il cammino
Fino a che giunse in un’altra città
La città di un altro fratello di suo padre
Il mantello prese vita sulle sue spalle
“Noi due colpiremo la tua città
Noi due colpiremo la tua città”
Lui perse la ragione
E portò in quella città
ancora distruzione, distruzione, distruzione, distruzione
E morte
Tornò in sé
quando non c’era più anima viva nella città
E lui era sudicio di sangue
Nelle braccia e nelle mani
“Qa, qa, qa, qa”
il suo corpo era tutto lamento
e disperazione.
Provò ancora a scagliarsi contro le rocce
Ma quella cosa non si strappava né si rompeva
Lui voleva liberarsi di ciò che prima
aveva tanto desiderato
Ma quella cosa restava “impigliata”
tra le sue dita
Il suo cammino riprese, doloroso
Adesso era vicino alla sua stessa città
Sapendo già il destino
che l’attendeva
Lui cercò di fermarsi, di non proseguire
Ma quella cosa sembrava
tirarlo per i piedi proprio in quella direzione
Una volta vicino alla meta
La sua mente si offuscò
E lui distrusse, annientò, rase al suolo
La sua stessa città
Uccise tutti i suoi parenti
Quando ritornò in sé
La sua città era sparita
Dove prima si ergevano le case
I morti ricoprivano la terra
I suoi lamenti e la sua disperazione
Riempirono l’aria
“Qa, qa, qa, qa”.
Si buttò nel fiume
Tentando, ancora, di liberarsi di quella cosa
Ma non ottenne alcun risultato
Addirittura arrivò a gettarsi da un dirupo roccioso
Pensando, sperando
“magari cadendo mi riduco in mille pezzi”
ma restò vivo e incolume
come la cosa che aveva addosso
Senza più speranza di liberazione da quel mantello
non faceva che piangere
attanagliato dalla disperazione.
Poi, improvvisamente, guardandosi alle spalle
Vide che c’era lei, la vecchia
“Tu” gli disse la donna
“invano ho cercato di dimostrarti il mio amore
per te e per la tua gente.
Perché, dunque, adesso piangi?
Tutto è dipeso da te
Tu hai voluto portarti via il mio mantello”.
Lei tolse dalle spalle dell’uomo
ciò che le apparteneva
E se lo portò via
Semplicemente lo lasciò lì da solo
E se ne tornò a casa
Lui rimase lì
Poco lontano da dove si ergeva un tempo la sua città
E si costruì una casa
Una piccola casa.
Stella Della Sera
KURUK
La tribù Kuruk (o Karok) vive nella parte alta del fiume Klamat (N/O California). Con gli Yurok e gli Hupa, per quanto la lingua Kuruk non abbia relazioni con le altre due, esprimono l’identità culturale che caratterizza questa area. La letteratura orale tradizionale di questa regione, in larga parte, consiste in miti ambientati in un tempo antico, precedente all’esistenza degli esseri umani. I personaggi dei miti sono persone/spiriti (ikxarèeyav), molti dei quali hanno nomi come Coyote, Orso e Cervo. Queste leggende finiscono regolarmente con l’affermazione che la vita degli esseri umani che devono ancora arrivare ad esistere sarà esattamente come sta ordinando la persona/spirito. A dimostrazione, dopo aver fornito il salmone e il granturco, Coyote afferma che gli uomini vivranno di loro. Alla fine della storia molti spiriti/persone sono trasformati nel primo esemplare della specie animale come la conosciamo oggi; gli altri rimangono nel mondo intangibile.
I Kuruk si rivolgono alle persone/spiriti quando hanno bisogno dei loro favori. Per tanto, per esempio, prima che un cacciatore salga in montagna, fa una medicina chiedendo allo stesso Cervo il permesso di poterlo uccidere. Le “formule” più comuni sono preghiere e canzoni imparate dai familiari più anziani, e sono considerate proprietà preziose da tenere segrete. Il materiale cantato della formula è, generalmente, molto breve. Qualche volta è composto soltanto da “parole canzoni”, vocaboli senza significato e comparabili all’italiano: tra-la-la. Altre consistono in poche frasi corte ma ripetute diverse volte. Le canzoni d’amore (chiihvìichva) come Evening Star sono, nei fatti, una forma di medicina d’amore: formule magiche per attirare la persona amata.
Stella Della Sera
Stella Della Sera viveva lì,
insieme al suo amore.
E, per tanto tempo, vissero felici.
Ma, un giorno, bisticciarono,
oh, si azzuffarono,
bisticciarono.
E lui tornò a casa,
Stella Della Sera se ne andò.
Andò lontano.
E, alla fine, se ne andò in giro,
in giro per tutto il mondo.
E la donna pensò,
“Oh, amore mio!
Come potrò rivederti,
mio dolce cuore?”
Oh, si sentiva sola,
si lasciò cadere
sul gradino della porta.
“Oh, come sono sola!
Oh, in che modo m’ha lasciato!”
Pensava.
E, così, il giorno dopo,
alla sera, si rilasciò cadere.
“Cosa posso fare?”
E pensò,
“Dovrei fare una canzone,
così lo potrò rivedere,
il mio amore.”
Il giorno dopo ancora,
tornò a lasciarsi cadere sul gradino.
E cantò una canzone,
sperando,
“Lo rivedrò ancora.”
Ii ii ii iiya
aa ii ii iiya
aa ii ii iiya
oh, m’hai lasciato
oh, amor mio
Oh, sono sola
oh, per un bisticcio
oh, amor mio
oh, Stella Della Sera
oh, ina ina
Oh, m’hai lasciato
oh, per un bisticcio
oh, amor mio
oh, amor mio
oh, amor mio
Se andrai allo sbocco ina
della fine della terra
io andrò oltre la fine
e capirai inaa
oh, amor mio
Oh, di stare insieme
oh, stare insieme
oh, amor mio
oh, sono sola
oh, amor mio
e capirai ina
oh, amore mio
oh, per un bisticcio
te ne sei andato
alla fine della terra
senza più una casa
devi girare intorno
fino al centro della terra
qui
rotoleremo insieme
sul tuo petto
rotoleremo insieme
Oh, amor mio
oh, Stella Della Sera
oh, Stella Della Sera
capirai ina
quando gli Uomini verranno
lo faranno anche loro
se anche v’azzuffate
tu e il tuo amore
trovate la mia canzone
e capirete ina
di stare insieme
io ve l’ho insegnato ina
oh, amor mio
Quando lei aveva finito,
di cantare al suo amore,
Stella Della Sera capì:
“Oh, sono solo,
penso solo al mio amore,
la devo ritrovare!”
Aveva perso il cuore,
ma lo ritroverà.
Qui nel centro della terra,
s’incontrarono ancora,
e lui ritrovò il cuore
quando Stella Della Sera e il suo amore tornarono insieme.
E lei parlò così
la donna lo disse,
“Quando gli Uomini verranno,
se una donna sarà lasciata,
ritroverà il suo lui,
con la mia canzone.
Ritornerà da lì,
fosse andato fino alla fine del mondo.”
E Stella Della Sera fu trasformato in una grande stella del cielo.
Canzone d'addio
HAVASUPAIS
Gli Havasupais sono una piccola tribù del Gran Canyon (Arizona) che vive in una lussureggiante oasi di spettacolare bellezza e colori. La Canzone d’Addio illustra il loro amore per la terra. Le Canzoni dei Vecchi e delle Vecchie (genere della canzone) sono composte per esprimere le più sentite e profonde emozioni. Possono essere canzoni d’amore, di rabbia, o di orgoglio nei riguardi di un familiare. Sono quasi sempre dirette ad una certa persona ma alcune, come questa, sono dedicate alla terra. Gli Havasupais, tradizionalmente, non parlano delle loro emozioni ma le cantano. La Canzone d’Addio esprime la convinzione dei giovani di essere immortali, e mostra il profondo disappunto dei vecchi che comprendono la falsità di questa credenza. E, pure con maggiore forza, comunica la certezza che la terra sia un essere vivente che ha una stretta e amorevole relazione con gli umani. Gli Havasupais credono che la terra provi sensazioni e, per questo, quando si spostano spiegano alla terra chi sono, perché sono lì, e dove stanno andando. Credono che la terra sappia quando ci siamo sopra e che gli manchiamo quando andiamo via. La diffusissima pratica di piantare sul terreno dei bastoncini, quando arriva la primavera, è figlia di questa convinzione.
CANZONE DI ADDIO
Sorgente che mi davi da bere
Terra che ho calpestato
Dove sono nato
Ascoltami
E dimenticami
Mi sentivo eterno
Credevo di vivere per sempre
Ne ero convinto
Credevo di restare giovane per sempre
Ma oggi le forze m’hanno abbandonato
Pensavo di stare per sempre così
Ero così
Ma oggi le forze m’hanno abbandonato
Terre che ho visitato
Quel posto
Ascoltami
E dimenticami
Prede brade
Che cacciavo
Pensavo di stare per sempre così
Sarei stato per sempre così
Ma oggi le forze m’hanno abbandonato
Io ero così
Io ero
Io ero
Macchia d’arbusti
Quel posto
Ti giravo intorno
correndo
ascoltami
E dimenticami
Dimenticami
Tronchi caduti
Vi saltavo sopra
Quel posto
Ascoltami
e dimenticami
Piccoli sassi
C’incespicavo
Quel posto
Ascoltami
e dimenticami
Sentiero lì disteso
che una volta seguivo
una volta seguivo
Quel posto
Ascoltami
E dimenticami
dimenticami
Torrente
Torrente
Ti saltavo al volo
Quel posto
Ascoltami
Ascoltami
e dimenticami
Altissime colline
Altissime colline
quel posto
correvo in cima
Quel posto
Ascoltami
e dimenticami
Correvo
in cima alla cima
Mi fermavo lì
guardavo lontano
Quel posto
Ascoltami
E dimenticami
dimenticami
Lepre lontana
giovane
marrone
Balzavi dal rifugio
Balzava dal rifugio
L’inseguivo
l’inseguivo
Subito addosso
l’arrivavo al lato
questo facevo
Col bastone da caccia
il mio
L’uncinavo
l’afferravo
l’arrostivo
arrostivo
e mangiavo
Pensavo di vivere per sempre
pensavo di viaggiare per sempre
Sembrava esser così
ma oggi le forze m’hanno abbandonato
Antilope lontano
Antilope lontano
giovane
Balzavi dal rifugio
Balzava all’improvviso
Partiva
L’inseguivo
Subito addosso
l’arrivavo al lato
questo facevo
Col bastone da caccia
il mio
L’uncinavo
l’afferravo
L’arrostivo
e mangiavo
Pensavo di vivere per sempre
pensavo di viaggiare per sempre
pensavo fosse per sempre così
sembrava
Ma oggi le forze m’hanno abbandonato
Terre che ho visitato
Quel posto
Ascoltami
e dimenticami
E’ questo che chiedo
Che chiedo
Oh! Terre che ho visitato
Quel posto
Ascoltami
Pensavo fosse per sempre così
io ero così
Ma non era vero
Pensavo fosse così per sempre
ma non era vero
Pensavo fosse così per sempre
ma oggi le forze m’hanno abbandonato
Pensavo fosse così per sempre
Pelli di cervo
le mie
le appendevo sul ginepro
l’albero coprivo
Le guardavo
Mi sentivo
così fiero
Pelli di cervo
le mie
le appendevo sui ginepri
Due alberi coprivo
Tre alberi coprivo
Le guardavo
Mi sentivo
così fiero
Pensavo fosse così per sempre
Pensavo fosse per sempre così
ma oggi le forze m’hanno abbandonato
Pensavo fosse per sempre così
Io ero così
io ero
Pensavo di vivere per sempre
pensavo di viaggiare per sempre
io ero così
Sarei rimasto sulla terra
sembrava
Che così fosse
Ma oggi le forze m’hanno abbandonato
Il cielo
sopra a me
sembrava
restarci per sempre
sembrava
Pensavo fosse per sempre così
ma oggi le forze m’hanno abbandonato
Ascoltami
e dimenticami
Dimenticami
Oggi le forze m’hanno abbandonato
Pensavo fosse per sempre così
Io ero così
io ero
La fonte
Arrivavo
M’inchinavo
al posto per bere
per bere sempre
quel posto
ascoltami
E dimenticami
dimenticami
Buco dipinto dall’acqua
sulla roccia
arrivavo
M’inginocchiavo
Quel posto
Dimenticami
dimenticami
Il sole
sopra le colline
Lo guardavo calare
Poi cominciavo a correre
cominciavo a correre
Io ero così
Non andavo piano
Questo non lo facevo
Non ero così
Non ero così
Io correvo veloce
correvo veloce
Io rincasavo veloce
rincasavo veloce
Io sorpassavo il sole
Sorpassavo il sole
Questo facevo
Io ero così
Non dormivo fino a tardi
non aspettavo il sole
Questo non lo facevo
Non ero così
Non ero così
Alba
quando arrivavi
io ti vedevo
M’alzavo
M’alzavo
Ti venivo incontro
Pensavo fosse così per sempre
è così che viaggiavo
Pensavo fosse per sempre così
ma oggi le forze m’hanno abbandonato
Pensavo fosse per sempre così
io ero così
Ascoltami
Terre che ho visitato
quel posto
ascoltami
e dimenticami
dimenticami
E’ questo che chiedo
che chiedo
La forza m’ha abbandonato
Pensavo fosse per sempre così
io ero così
Pensavo di vivere per sempre
Pensavo di vivere per sempre
Sarei rimasto sulla terra
sembrava
Sarei restato sulle montagne
sembrava
io ero così
credevo così
Mi sentivo
così fiero
Pensavo fosse per sempre così
Ma oggi le forze m’hanno abbandonato
Pensavo fosse per sempre così
Io ero così
io ero
LA CANZONE DEL CAVALLO
NAVAJO
Fra le centinaia di canzoni Navajo trascritte, questa cerimonia di benedizione, si distingue per la grande varietà di metafore usate che, nella poetica dei Nativi Americani, è alquanto inusuale. La cerimonia viene celebrata per garantirsi una grazia, la buona fortuna, la prosperità, o l’incremento dei beni vitali – i cavalli sono il simbolo di questi desiderati fini. Una benedizione che si può fare quando si inaugura una nuova casa, quando si parte per un viaggio, quando si aspetta un bambino, o nell’esigenza di un rinnovamento fisico o spirituale. Può essere usata per la “ricarica di potere” di un gruppo di strumenti cerimoniali. Le Canzoni del Cavallo non sono parte di tutte le cerimonie per le richieste di grazie ma, principalmente, di quelle che includono i viaggi, i beni necessari, o la salute. La Canzone del Cavallo del Dio della Guerra, nel suo titolo originario, è una delle canzoni Navajo più tradotte e pubblicate in America.
Alla fine di ogni canzone è riportata la spiegazione che ne dava la voce narrante.
LA CANZONE DEL CAVALLO
He-neye yana,
Con le loro voci mi stanno chiamando,
con le loro voci mi stanno chiamando,
con le loro voci mi stanno chiamando,
con le loro voci mi stanno chiamando,
con le loro voci mi stanno chiamando,
con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana.
Con le loro voci mi stanno chiamando,
con le loro voci mi stanno chiamando,
con le loro voci mi stanno chiamando,
con le loro voci mi stanno chiamando,
con le loro voci mi stanno chiamando,
con le loro voci mi stanno chiamando,
con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana.
Donna Conchiglia Bianca, na, il suo bambino, perché è questo che sono, na,
con le loro voci mi stanno chiamando,
con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana.
Portatore Del Disco Del Giorno, ye, suo figlio, ’e, perché è questo che sono, na,
con le loro voci mi stanno chiamando,
con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana.
Ragazzo Turchese, perché è questo che sono, na,
con le loro voci mi stanno chiamando,
con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana.
L’arcobaleno, iye, dov’è blu, wo, sono lì, iye,
ora, lì sopra dove s’inarca, ora, dove tocca la terra, yiye,
questa parte più vicina,
con le loro voci mi stanno chiamando,
con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana.
Questo significa, “lì sopra dove s’inarca l’arcobaleno, dove finisce con il blu, poco lontano dalla fine, loro mi stanno chiamando”. La madre gli ha detto che quel suono è un cavallo. Lui aveva chiesto: “Cos’è questo suono? E’ qualcosa di male che viene dalle battaglie che ho combattuto recentemente?” Lei aveva risposto: “No, questo è il suono dei cavalli che arriva da dove vive tuo padre”. Lui stava andando a casa di suo padre. La strada sull’arcobaleno finiva sul posto dove era la casa del Sole. Lì, probabilmente, prima che raggiungesse la fine aveva sentito i cavalli.
Ragazzo in Piedi Fra il Portatore Del Disco Del Sole, ye, i suoi cavalli, i’e,
con le loro voci mi stanno chiamando,
con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana.
Il Ragazzo Fra Sole In Piedi e i suoi cavalli: sta parlando dell’altro fratello, il figlio del Sole che vive la sopra. Perché i cavalli vengono da lì, Ammazza Nemici sente i suoi cavalli. I cavalli del figlio del Sole mi stanno chiamando. Il figlio del Sole, i suoi cavalli lo stanno chiamando. “In Piedi Fra” si rivolge a sua madre. Il figlio del Sole, il discendente del Sole, i suoi cavalli mi stanno chiamando.
I cavalli turchesi, quelli sono i miei cavalli, i’e,
con le loro voci mi stanno chiamando,
con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana.
I suoi zoccoli, scuro, iye, brocche per l’acqua,
con le loro voci mi stanno chiamando,
con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana.
La piccola brocca d’acqua è fatta con il suo piede. Si riferisce agli zoccoli.
Le rane dei sottozoccoli, ye, punte per le frecce,
con le loro voci mi stanno chiamando,
con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana.
Qui si riferisce alla punta della freccia intagliata dallo zoccolo, dalla parte di sotto.
Gli zoccoli striati, ihiye, pietre miraggio,
con le loro voci mi stanno chiamando,
con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana.
I suoi zoccoli erano pietre miraggio.
Dalle gambe davanti, scuro, iye, il vento,
con le loro voci mi stanno chiamando,
con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana.
Vuol dire in movimento, correndo veloce.
Le sue gambe sono come zigzaganti fulmini.
Sotto la coda, scuro, iye, ombra di nuvole,
con le loro voci mi stanno chiamando,
con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana.
Questo significa l’ombra nera nel cielo che scende dalle nuvole.
Dal suo corpo, ogni tessuto,
con le loro voci mi stanno chiamando,
con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana.
E’ ricoperto, scuro, i, di nuvole,
con le loro voci mi stanno chiamando,
con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana.
Vuol dire la loro pelle.
Sul suo corpo, rosso, jiye, sono sparse le fiammate del sole,
con le loro voci mi stanno chiamando,
con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana.
“Le fiammate del sole, rosso”-vuol dire piccoli pezzi di arcobaleno. “Sono sparse sul suo corpo”- le scintille che vedi la notte sul pelo del cavallo.
Portatore Del Disco Del Sole, yeye, ’eye, risplende su loro da prima di loro,
con le loro voci mi stanno chiamando,
con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana.
Lontano laggiù, il sole sale davanti a loro e splende su i loro peli.
La groppa, iye, la nuova luna,
con le loro voci mi stanno chiamando,
con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana.
La coda, iye, i raggi di sole,
con le loro voci mi stanno chiamando,
con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana.
Le redini, iye, l’arcobaleno,
con le loro voci mi stanno chiamando,
con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana.
Quando partono, iye, con l’arcobaleno,
con le loro voci mi stanno chiamando,
con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana.
L’arcobaleno è l’energia che li fa partire velocemente, come la batteria di un’automobile.
La criniera scorre, scura, diye, come pioggia copiosa,
con le loro voci mi stanno chiamando,
con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana.
Le orecchie, iye, come germogli,
con le loro voci mi stanno chiamando,
con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana.
Significa che le loro orecchie crescono verso l’alto come le piante.
Gli occhi, scuri, iye, grandi stelle,
con le loro voci mi stanno chiamando,
con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana.
Poiché le stelle di notte brillano chiare i cavalli possono ritrovare la loro casa anche nell’oscurità.
Sulla faccia, iye, acqua di ogni sorta,
con le loro voci mi stanno chiamando,
con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana.
Acqua di sorgente o fiume, che arriva dalla terra. A volte dolce, a volte salata: mischiata con tutti i colori. I cavalli, in ogni luogo, bevono ogni sorta di acqua e, se non è avvelenata, non gli fa male. Se è coperta da uno strato di polvere, la soffiano via. Nello stesso modo, per non inghiottire niente di sporco o di nocivo, soffiano sulla polvere che ricopre l’erba che si apprestano a mangiare. Il segno di questo è la spirale che hanno sulla faccia. E’ il segno di riconoscimento della completezza dell’essere cavallo. Qui sta il bandolo della matassa. Possono mangiare spini, non gli faranno male, o insetti velenosi, non gli faranno male. Mangiano il polline dei fiori più belli cresciuti con le acque più diverse.
Le labbra, wheye, grandi conchiglie,
con le loro voci mi stanno chiamando,
con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana.
Si riferisce alle grandi conchiglie che hanno labbra e punti come denti.
I denti, bianchi, ye, conchiglie,
con le loro voci mi stanno chiamando,
con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana.
I suoi denti erano conchiglie.
I nitriti sono fiaccole di fulmini,
con le loro voci mi stanno chiamando,
con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana.
I fulmini furono messi nelle loro bocche per mordere. I morsi dei cavalli fanno male. Parlano precisi come fulmini.
Dalle bocche, scure, iye, risuona musica,
con le loro voci mi stanno chiamando,
con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana.
Si riferisce agli strumenti musicali. A quando si fa musica che si porta lo strumento alla bocca. Perché, quando i cavalli furono creati, scuro, nelle loro bocche ci misero quelli che fanno la musica.
Dalle loro bocche, iye, risuona l’alba,
con le loro voci mi stanno chiamando,
con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana.
Le loro voci, he, paiono scuro, ora mi raggiungono,
con le loro voci mi stanno chiamando,
con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana.
Dalla bocca, iye, all’alba si spande il polline,
con le loro voci mi stanno chiamando,
con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana.
Ogni nuova cosa comincia con l’inizio dell’alba. Il cavallo riceve nuova aria dentro la bocca per respirare e suonare con il polline creato all’alba. E’ come quando impari qualcosa; ce l’hai in mente e poi lo usi, e con quello insegni agli altri. Il cavallo non sa quando è stanco o assonnato – non sono fatti come noi. Qualsiasi cosa fosse, quello che gli fu messo in bocca, è quello che non gli fa sentire la stanchezza. Gli è stato messo in bocca perché arrivasse subito alla mente, così non può dimenticarlo.
Polline e rugiada stesi nella bacca, sacro, ye, con i fiori,
con le loro voci mi stanno chiamando,
con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana.
Tutti mangiamo tanto di quel cibo che ci piace. I cavalli avranno sempre tanta vegetazione da mangiare: fiori, polline e rugiada. Significa che piante ed acqua ci saranno sempre e, per questo, i cavalli vivranno per sempre. Per questo mangiano ogni sorta di fiori, di polline e d’ acqua.
Le sue redini, iye, i raggi del sole,
con le loro voci mi stanno chiamando,
con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana.
Ora! Bellamente alla mia mano, e, al mio braccio destro,
con le loro voci mi stanno chiamando,
con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana.
Questo significa che in nessun modo, in futuro, si potrà far male ai cavalli; staranno sempre bene.
Ora! diventano i miei cavalli, ye, da questo giorno,
con le loro voci mi stanno chiamando,
con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana.
Ed è lo stesso per me. Oggi diveniamo alleati, ed io sarò il vincitore.
Mai più diminuiranno, ora! si moltiplicheranno,
con le loro voci mi stanno chiamando,
con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana.
I miei cavalli, ora per sempre ritornati a lunga vita e quindi sacri,
con le loro voci mi stanno chiamando,
con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana.
Da quando io, ora me medesimo,
sono il Ragazzo per Sempre Ritornato a Lunga Vita e Quindi Sacro,
con le loro voci mi stanno chiamando,
con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, neye yana.
con le loro voci mi stanno chiamando,
con le loro voci mi stanno chiamando,
con le loro voci mi stanno chiamando, yehe,
con le loro voci mi stanno chiamando,
con le loro voci mi stanno chiamando,
con le loro voci mi stanno chiamando, ya’e, ne’eya!
COYOTE
NAVAJO
Le storie Navajo su Coyote sono raccontate ai bambini durante le serate invernali perché, si dice, che le creature più pericolose, come ad esempio i serpenti, le lucertole e gli orsi, durante l’inverno vadano in ibernazione; avranno la scintilla col primo temporale primaverile. Coyote è una delle figure mitologiche della cultura Navajo. E’ considerato un semi-Dio e, per questo, serve come messaggero fra le divinità e i Dinè (Gente Navajo). Gli Uomini della Medicina raccontano storie che, comunemente, si riferiscono a cose dette o fatte da Coyote all’inizio di questo mondo (il 5° Mondo), o in uno dei precedenti quattro. Molte di queste storie si riferiscono alle primogeniture di Coyote su certi tipi di comportamento – buoni o cattivi - che gli umani praticano in questo mondo. Quando sta per accadere qualcosa di disdicevole, si dice, che Coyote mandi un segnale di avvertimento, magari interferendo nell’armonia della vita quotidiana della probabile vittima attraversandogli la strada. In altri casi, i suoi precedenti, vengono portati ad esempio come comportamenti da non seguire. Per esempio: Coyote ha rapito il figlio del Mostruoso Essere dell’Acqua perché era rimasto attratto dalla sua tenerezza; dunque: il rapimento è un’azione spregevole perché è stato Coyote il primo a rapire un altro essere vivente.
In principio c’era il Mondo Nero … una massa buia e confusa. Poi, all’inizio, arrivarono le divinità: Primo Uomo e Prima Donna. Arrivarono dai quattro mondi e, Coyote, li ha accompagnati dal primo momento ad oggi.
COYOTE
Fu proprio Coyote a mettere una o due pecore in ogni cortile Navajo.
E proprio perché fu lui a metterle…
da allora…
lui si sente nel giusto se ne ruba una o due per sfamarsi.
Questa è la regola…
dal tempo dei tempi!
Così è detto!
Ma prima che si comprendesse che questa era la legge,
tanto,
tanto tempo fa,
all’inizio del tempo,
la gente mostrò poca tolleranza nei confronti di Coyote,
che fu subito definito Ladro.
“Ma’ii –
gli dissero gli uomini –
riprenditi le tue pecore dal cortile e curatene da solo,
se farai così noi non ti odieremo più e tu potrai saziarti a tuo piacimento”.
“No!
No… cari cugini!
Che orribile pensiero!
Questo non è possibile…
io non saprei neanche come fare.
E poi,
sono sempre in giro e non potrei prendermi cura delle bestie! –
rispose Coyote –
inoltre,
se non ci fossi io a rubarvi le pecore,
voi,
non dovendovi più prendere cura di loro,
diventereste sfaccendati e pelandroni.
Vi scongiuro,
lasciate che le mie pecore restino nei vostri cortili!”.
Questa storia del destino di Coyote spiega perché, a tutt’oggi, Coyote continua a rubare le pecore e a rischiare.
LA CACCIA DEL CERVO
YAQUI
Gli Yaqui o Yoemem (la Gente), come chiamano se stessi, considerano la Canzone del Cervo la loro più antica forma d’arte verbale. La Caccia del Cervo descrive entrambi i mondi: questo e quell’altro; un mondo dove tutte le azioni del danzatore del cervo hanno un parallelismo in quel mitico posto primordiale che gli Yaqui chiamano Sea Ania (Mondo Fiorito). Il Mondo Fiorito è associato con altri posti spirituali come lo Yo Ania (Mondo Incantato), o lo Huya Ania (Mondo Selvatico). Il Mondo Selvatico è la casa di tutti e due: Saila Maso (cervo) e Yevuko Yoleme (prototipo del cacciatore). Le Canzoni del Cervo descrivono l’equivalenza fra queste due parti reali dell’universo Yaqui. Collegano il mondo polveroso della danza con l’etereo Mondo Fiorito, un mondo visibile e uno invisibile, il mondo che è sempre qui con quello che è sempre di là. I Sewam (fiori) sono le chiavi di questa equazione. I fiori sono tutto ciò che di bello e di buono ci arriva dal Mondo Fiorito. Ogni cosa che è animata, influenzata, o toccata dal Sea Ania può essere definita Sewam. Il palcoscenico, Rama (dallo spagnolo ramada), è fatto con gli arbusti del Deserto di Sonora disposti in maniera da suggerire un’apertura nel deserto; perché si crede che, durante la cerimonia, il Rama diventi il Mondo Fiorito.
Alla fine di ogni canzone è riportata la spiegazione che ne dava la voce narrante
LA CACCIA DEL CERVO
Prima devi solo guardare
Dopo lo troverai, lo troverai
Prima devi solo cercare
Dopo lo scoverai, lo scoverai
Prima devi solo aspettare
Dopo lo prenderai, lo prenderai
Aspetta
Lo prenderai
“Sono risalito da una apertura
laggiù nel piccolo bosco ricoperto di fiori”
Una volta che sarà fuori, lo prenderai
Prima devi solo guardare
dopo lo scorgerai, lo prenderai.
“Prima cercalo con gli occhi” dice la canzone. “Quando emerge dagli arbusti, lo vedrai”. “Cercalo che poi lo troverai” così dicono i cacciatori, i pakkolam .
Allora, i pakkolam escono a caccia. Cercano le tracce dell’animale negli anfratti. Si, negli angoli selvatici più nascosti. Oddio! Non sono proprio angoli selvatici quelli in cui si è al cospetto del rama . I cacciatori cammineranno, cammineranno. Poi, fuori dal luogo selvatico, cercheranno quell’animale. E ancora lo cercheranno e così facendo torneranno al cospetto del rama. Così dice la canzone.
Dove cresce l’agave mescal
Lì ci incontreremo
Immobili e saldi come l’agave mescal
Ci incontreremo lì.
Dove si erge l’agave mescal
Ci ritroveremo
Decisi ad aspettare
Fissi e impassibili come l’agave mescal
Che cresce vigorosa
Dove noi ci siamo dati appuntamento.
“E tu sei incantevole, avvoltoio nero di cielo”
“E tu sei incantevole, avvoltoio giallo di terra ”
noi ci incontreremo
dove si erge il legno bianco e l’agave mescal;
insieme parleremo di questo animale.
L’avvoltoio nero e quello giallo si incontreranno dove si erge un albero bianco. “Quando ci incontreremo parleremo di questo animale” dice l’avvoltoio nero. I due parleranno del cervo che intendono mangiare. Il cervo danzerà per questo. L’avvoltoio nero e l’avvoltoio giallo parleranno insieme tra loro dove si erge l’albero bianco.
Loro appaiono in questo mondo quando vedono qualcosa che giace morto per terra. Loro vivono da qualche parte sopra le nostre teste. L’avvoltoio nero e l’avvoltoio tacchino scendono in questo mondo perché vogliono mangiare. Questo dice la canzone. Loro vogliono cacciare e poi mangiare.
È per questo che parlano del cervo. “Laggiù – dicono – c’incontreremo dove si erge l’albero bianco”. Forse anche l’albero è morto. Aspettano insieme laggiù, sotto il sole che li riscalda. Parlano dell’animale, di dove lo soggiogheranno. Sono loro che lo mangeranno. Stanno aspettando da qualche parte laggiù.
Cercano le tracce
Laggiù intorno
“Prendilo per me”
Seguono le tracce
proprio laggiù
“Prendilo per me”
Annusano l’animale
che si trova nel mondo
“Prendilo per me”
Inseguono la preda
“Prendilo per me”
Laggiù c’è un’apertura
che affaccia sul piccolo bosco ricoperto di fiori
Da lì lui verrà fuori
“Tu lo prenderai per me”.
È laggiù nei paraggi
“Cerca le tracce;
prendilo per me”
“Cerca le tracce, laggiù intorno. Manca poco, lo prenderemo” dice la canzone. “Da un’apertura del piccolo bosco ricoperto di fiori, quando arriverà lì, noi lo prenderemo” dicono i pakkolam. “Una volta uscito allo scoperto lo prenderemo” e con questa strofa la canzone finirà, finirà.
Il cervo sarà ucciso, lì nel rama. Intanto quelli che lo aspettano siedono qui. Aspettano seduti tutti e quattro nascosti dietro un cespuglio. Quando saranno lì fermi ad aspettare, il cantore del cervo intonerà questa canzone. Quando starà per iniziare la canzone, il cervo correrà incontro fra i cespugli proprio ai quattro pakkolam che, nella foga di alzarsi, cadranno in avanti l’uno addosso all’altro. L’un l’altro, gridando, si raccomanderanno di non fare rumore. I pakkolam si prenderanno in giro l’uno con l’altro. Il cervo, alla fine della strofa, urtando contro uno lì seduto, scapperà via. Questa volta i pakkolam, sorpresi e spaventati, cadranno indietro. Proprio quando il primo della fila colpirà e così, quando lui scaglierà la freccia, la scaglierà in alto, in alto nell’aria, e getterà l’arco. Allora, gi altri pakkolam, che sono i suoi figli, diranno “come può un uomo grande fare questo, babbo, papa?” e prenderanno in giro l’uomo. Si faranno gioco del padre!
“Arco, dov’è la mia Freccia ?”
“E’ a Punta Storta”
“E’ a Sperduto ce n’è un’altra”
Così i cacciatori si prenderanno in gioco l’uno dell’altro. E uno dirà “No, non l’uomo chiamato Freccia ma la freccia dell’arco”. E poi si metteranno tutti a cercare la freccia di legno…
“E’ qui la freccia che ti appartiene”.
Intanto il cervo è scappato dal rama. Per cercarlo i cacciatori faranno un giro intorno alla croce sul rama. Il cane li seguirà. Fiuterà e seguirà le tracce. Quando le troverà, abbaierà forte.
“Il cane le ha trovate laggiù”, diranno. Ed il cane, ancora una volta, continuerà la sua corsa dietro il cervo. La canzone dice così.
Vado in un posto
Dove non c’è salvezza
Vedo i miei stessi passi
Dirigersi verso la mia rovina
Vado incontro
Alla mia fine
Vado in un luogo
Dove mi aspetta la morte
So che oltre il bosco
Per me non c’è ritorno
Eppure vado ugualmente
Nel luogo da cui non si può ritornare
Sono risalito da quel buco
E mi trovo nel bosco fiorito
Dove si aggirano questi incantevoli
Uomini freccia
In questo posto non avrò scampo
Eppure ci vado
E’ questa la fine del cervo. Lui è uscito dal suo mondo, ha visto l’apertura e se ne è tirato fuori. “In nessun posto potevo trovare la mia salvezza” dice. “Va bene qui, dove ci sono gli uomini freccia, gli vado incontro” ci dice.
Certo, lui non sa esattamente quello che vuole e quello che desidera. Per questo va dove ci sono loro. “Vado verso la mia rovina” dice il cervo; da un’apertura del bosco selvatico al mondo selvatico. Il cervo parla così. È proprio il cervo a dire questo. Lui è saltato fuori, verso il mondo selvatico. La canzone prosegue.
Sebbene io fossi ben nascosto nel bosco selvatico
Sto correndo fuori
La mia corona di corna mi tradisce
Smuove i rami dei cespugli
Riparato nel fondo del bosco
Ne sono uscito
Ora la mia corona svela la mia presenza
Intricandosi tra i rami dei cespugli
Dal mio rifugio nel bosco selvatico
Ho deciso di venire fuori allo scoperto
E’ tutta colpa delle mie grandi corna
Più alte dei rami dei cespugli
Dove si impigliano
Potrei rimanere nascosto nel bosco
Invece sto correndo fuori
La mia corona di corna svela la mia presenza
Smuove i rami dei cespugli
Il cervo comincia a correre e tenta di nascondersi. Corre verso la prateria. Ma le sue corna agitano la boscaglia. Lui sa tutto ciò che gli sta accadendo e lo racconta. Ed ecco il significato di quello che dice. “Nascosto al sicuro del piccolo bosco selvaggio, sto correndo fuori”, dice. “Le mie corna mi tradiscono. Si vedono muoversi tra i rovi” dice il cervo. Lui sa di avere grandi corna. E la canzone prosegue.
Piccolo bosco ricoperto di fiori, ti vengo incontro
Ti sto parlando
Piccolo bosco di fiori, sto arrivando
E ti parlo
Adesso vado verso il bosco fiorito
E mi rivolgo a lui
Mentre mi incammino laggiù
…attraverso il varco
del piccolo bosco ricoperto di fiori
dietro di me
vedo questi incantevoli uomini freccia.
E’ questo che vedo alle mie spalle
E te lo dico, piccolo bosco fiorito.
Mentre la canzone avanza verso il finale, il cervo continua a correre. E mentre corre parla rivolgendosi al mondo che lo circonda. Scappa, e chiede aiuto al mondo selvatico in cui è caduto. “Piccolo bosco ricoperto di fiori” dice “Sto arrivando da te e ti parlo”.
Il cervo vuole che qualcuno parli per lui. Vuole che il mondo selvatico parli per lui. Come potrà parlare per lui? Non c’è una risposta, la canzone dice solo questo. Quel povero essere vuole che qualcuno abbia la benevolenza di parlare per lui. Il cervo non vuole morire e lo dichiara nella canzone. E la canzone continua.
Voi siete fratelli
Prendete la mira, di comune accordo tra voi
Dopo aver preso la mira
Colpite insieme
Avete lo stesso sangue
Tirate bene e fatelo in accordo tra voi
Annuendo l’un l’altro
Colpite insieme
Mirate, dunque, lanciate
Convinti di colpire
In pace tra voi
Insieme colpite
Io mi trovo lì
Al centro dell’apertura
Sul piccolo bosco ricoperto di fiori
“Stiamo correndo”.
La mia bava diventa fiore
Calpesto polvere che diviene fiore
“Stiamo inseguendo”
Tirate bene, di comune accordo,
tirate tutti insieme.
Questa parte della canzone riguarda i cacciatori che sono impegnati nell’inseguire il cervo. E infatti loro continuano a correre, scagliando contro l’animale le loro frecce. E fanno come i ragazzini quando inseguono qualcosa o qualcuno. “Corrono verso un’apertura del piccolo bosco” dice la canzone. “Correndo come persone che diventano fiore, bava/polvere/fiore” dice la canzone che prosegue: “Tirate bene, di comune accordo” dice “Ricordatevi che siete fratelli”. La canzone dice questo e continua.
Dove stanno lanciando le loro frecce?
Le tirano nel bosco
A cosa stanno mirando?
Stanno mirando all’aria
Cosa stanno colpendo?
Non colpiscono nessuno.
Io mi trovo laggiù
In un’insenatura
Immerso nel bosco coperto di fiori
Con la bava divenuta fiore
Con la polvere diventata fiore
“Stiamo correndo”
dove stanno tirando?
Stanno tirando nel nulla
I pakkolam corrono e cercano di colpire il cervo con le loro frecce. “Ma dove tirano?” domanda la canzone. “Tirano al nulla” risponde. I pakkolam inseguono il cervo ma dentro stanno già cantando. “Laggiù in un’apertura sul piccolo bosco, con la bava diventata fiore, con la polvere diventata fiore, stanno correndo” dice la canzone. Tirano senza colpire. La canzone dice solo questo.
Non volendo morire
Districandosi tra i rovi del bosco selvatico
Non volendo cedere
Divincolandosi tra le sterpaglie del bosco selvatico
Rifiutandosi di soccombere
Correndo tra i rami del bosco selvatico
Non volendo ammettere la sua fine
Sferzato dai fuscelli del bosco selvatico
Io sono laggiù
Correndo nel piccolo bosco coperto di fiori
E cerco di correre
dimenandomi, ferendomi,
ad ogni incantevole cespuglio
non volendo morire
districandomi tra i rovi del bosco selvatico
Il cervo corre verso il mondo selvatico. Volendo salvarsi, lui cerca rifugio nel mondo selvatico e vuole entrarci. “Voglio entrare nel mondo selvatico” dice. “Non volendo morire voglio entrare nel mondo selvatico”, lo stesso cervo dice questo, mentre continua a correre per salvarsi.
Esausto per il troppo correre, adesso rallento il passo
Malgrado la stanchezza continuo a correre
Esausto per il troppo correre, adesso rallento il passo
Cammino dopo aver perso il fiato nella corsa
Nonostante la stanchezza, procedo nella fuga
Esausto dal correre, adesso cammino
Ho corso troppo, adesso cammino
Ho corso troppo ma non mi fermo
La fuga mi ha sfinito
Ma non mi fermo ed avanzo
Rallentando il passo
Io sto camminando laggiù
Lungo un sentiero
Attraverso il piccolo bosco ricoperto di fiori
E continuo a camminare
Con la testa china
Verso la terra
E continuo a camminare
Con la bava alla bocca
Continuo a scappare
Nonostante io sia esausto per il troppo correre
Continuo a camminare
Per salvarmi
“Esausto per il troppo correre” dice la canzone. “Esausto per il troppo correre, continui a camminare”. Stanco, camminando, agitandosi tra i rami estremi alla fine del piccolo bosco, il cervo procede nella sua corsa. Con la testa china verso la terra, con la bava intorno alla bocca, sta camminando. Stanco, camminando, lo stesso cervo si racconta e lo fa in questo modo.
Mai più
Io sarò in questo mondo
né camminerò ramingo
non ci sarò mai più
Io non ci sarò domani
Non camminerò più
Su questa terra
Non ci sarò mai più
Ma cammino ancora
Laggiù
Nel sentiero racchiuso nel piccolo bosco fiorito
Ammetto… l’arco di Yevuku Yelome
Mi ha sconfitto incantevolmente
La freccia di bamboo di Yevuku Yelome
Mi ha vinto meravigliosamente
Mai più la mia ombra
Si poggerà su questa terra
Non camminerò più in questo mondo
E qui il cervo cade. “Mai più io sarò qui, né camminerò ramingo” dice. Il cervo sta per essere ucciso, sta per morire. “L’arco di legno di Yevuku Yelome”, dice. Vuol dire che un arco di legno lo ha sconfitto incantevolmente. “Con l’arco bastone di Yevuku Yelome sono stato sconfitto incantevolmente”. E’ lo stesso cervo a raccontare la sua fine. Lui usa queste parole.
Mentre sta morendo, mentre agonizzante va a morire, dice questo. Come coloro che andando in guerra felici accettano di poter morire sul campo di battaglia, e proprio lì dirigeranno i loro passi , così fa il cervo.
Le mie zampe si trovano sulla mia corona di corna
Ma cosa mi sta succedendo?
Che posizione è quella in cui mi trovo?
Cosa mi è accaduto?
La mia corona di corna è sovrastata dalle mie zampe
Non era mai accaduto questo
Io sto ancora camminando
Laggiù
Lungo il sentiero che attraversa il piccolo bosco coperto di fiori
Ammetto…. L’uomo fiore con il suo arco di legno
Mi ha preso
L’uomo fiore, armato di freccia e bastone divenuto fiore
Mi ha sconfitto incantevolmente
È ancora il cervo a descrivere la sua condizione, mentre viene trasportato. I cacciatori lo hanno ucciso, i pakkolam, gli uomini cacciatori. Io pure uccido i cervi. Ed anch’io metto le zampe sulle corna dell’animale quando devo trasportarlo dopo averlo ucciso. La canzone dice questo. “Le mie zampe sono sulla corona di corna, cosa mi sta accadendo?”. Accade che le sue zampe sono state messe lì dai cacciatori, per permettere un più facile trasporto del corpo. Lui stesso descrive la sua condizione, usando queste parole e cantando la sua tragica vicenda.
È stato ucciso, ucciso da un arco di legno.
Ucciso e preso, ucciso e preso
Lì nel selvatico
Sono stato ucciso e preso
Sono stato colpito infine
Lì nel bosco fiorito
Ucciso e portato via
Mi hanno catturato e trasportato
Colpito a morte e portato via
Yevuku Yelome mi ha sconfitto
incantevolmente
Laggiù
Nel centro del piccolo bosco fiorito
L’incantevole Yevuku Yelome
Mi ha battuto meravigliosamente
Ucciso e preso
Lì nel bosco fiorito
Adesso il cervo entra nel “rama”, viene trasportato lì. E continua a raccontare la sua stessa fine. “Sono stato ucciso e preso. Lì nel selvatico, sono stato ucciso” dice. “Gli incantevoli uomini cacciatori mi hanno preso” dice “Morte mi hai preso” dice.
Sei disteso sulle frasche
Animale divenuto fiore
Corpo divenuto fiore
Adesso sei esanime sulla legna
Animale fiorito, corpo fiorito
Ed il corpo è un fiore
E sei esanime disteso sulla brace
“Io sono di Yevuku Yelome
il mio corpo è ricoperto di fiori
i fiori dal mondo incantato”.
Ormai sta riposando in quel mondo
l’animale ricoperto di fiori
dal corpo divenuto fiore.
Queste parole sono pronunciate dai cantanti che si rivolgono al cervo. “Sei disteso sulle frasche, animale ricoperto di fiori, corpo divenuto fiore” recita la canzone. “Nel patio fiorito di Yevuku Yelome arriva ogni pianta del mondo selvatico. E tu ti trovi ormai disteso su quelle frasche, animale ricoperto di fiori, dal corpo divenuto fiore” dice la canzone. Distendici il cervo sopra. Ogni pianta va bene. Sul pakko c’è sempre del legno di cotone. Buttalo sul rama e sulla strada ci sarà del legno di cotone. Questo va bene per lui, per il cervo. Lì è il luogo in cui sarà macellato, dove i pakkolam lo macelleranno. Quando l’avranno messo lì sopra, sarà coperto con un vecchio sacco o una coperta. E la canzone riprende quando il cervo viene disteso sulla legna. Ma allora, il flauto suonerà diversamente; comincerà ad intonare un’altra canzone. Mentre lo distendono sulle frasche, i flauti iniziano a suonare la canzone della Mosca Chiazzata. I cantori del cervo non sanno la canzone della Mosca Chiazzata, solo i flauti la conoscono. Allora, i pakkolam reciteranno con questa canzone. Reciteranno intorno al cervo, lo ingiurieranno. Ed allora diranno “macelliamolo subito” e la macellazione ha inizio.
Metti un fiore sopra di me
Un fiore preso dall’animale fiorito
Dal corpo divenuto fiore
Oh, metti un fiore sopra di me
Un fiore preso dall’animale fiorito
Dal corpo divenuto fiore
Oh, regalami uno dei fiori
Sbocciati dal corpo dell’animale
Io sono laggiù
Lungo il sentiero fiorito ricoperto di fiori
Sono immobile
Coperto di polvere
Sono immobile
Coperto di bruma
Immobile
“Metti un fiore sopra di me
Un fiore preso dall’animale fiorito
Dal corpo divenuto fiore”
Vedi, ora si è alzato il vento, un vento polveroso. Tolosailo: questo è il nome del vento polveroso e grigio. E polverosa e grigia è l’aria che si respira fuori dal giardino di Yevuku Yelome.
Quell’albero, come quelli laggiù nel giardino fiorito, sì, quell’albero sta parlando. Quando il cervo sarà stato disteso sulle frasche, l’albero chiederà la coda, la coda del cervo. I cacciatori del cervo taglieranno la coda e l’appenderanno sull’albero. Questo è quello che l’albero sta chiedendo: l’albero sta chiedendo la coda. “ Metti un fiore sopra di me. Un fiore preso dall’animale fiorito. Dal corpo divenuto fiore”, dice. L’albero chiede questo ai cacciatori. Vuole che loro appendano la coda del cervo ad uno dei suoi rami. L’albero che sta nel patio la vuole come decorazione, vuole la coda del cervo “fiore”.
Il mio incantevole corpo
È diventato fiore
Sta bruciando sopra il fuoco
E un fianco scivola sull’altro
Vedo il mio corpo fiorito
Sulla brace incandescente
Appoggiato su un fianco
E poi sull’altro
Il mio corpo fiorito
Si illumina al fuoco
Immobile su un fianco
E poi sull’altro
Io sono laggiù, nel giardino fiorito
Ricoperto di fiori di Yevuku Yelome
Qui d’incanto
Mi diffondo nell’aria
L’aria è intrisa di me
Ed io divento fiore
Mio incantevole corpo divenuto fiore
Fuoco sopra al fuoco
Un fianco appoggiato all’altro
La carne del cervo, arrostita sulla brace, continua a parlare. Diventerà spiedini. “Mio incantevole corpo fiore, fuoco sopra al fuoco, un fianco appoggiato all’altro, spiedini” dice. “Il giardino fiorito di Yevuku Yelome” dice “Qui mi diffondo e divento fiore” dice. Lo spirito del cervo è ancora nel mondo selvatico. Il cervo svela questo di sé. Canta così.
Il mio incantevole corpo divenuto fiore sta risplendendo
Appoggiato lì fuori di me
Una parte del mio corpo fiorito brilla
Fuori dalla mia pelle
Io sono sempre laggiù nel giardino fiorito
Coperto di fiori di Yevuku Yelome
E risplendo
Fiori dalla mia pelle
E le mie essenze si diffondono nell’aria
Divento evanescente
Il mio incantevole fiore corpo sta risplendendo
Appoggiato fuori di me
Interiora, budella di cervo. Qui la canzone parla di budella.
Ma non uno stecco,
né buono né bello
è rimasto
non è rimasto più nulla di me
né di commestibile né di utile
neppure uno spiedino
non c’è altro di me
che sia rimasto in questo mondo
null’altro
Io ormai sono al centro
Del mondo selvatico coperto di fiori
Lì nel selvatico
Sono qui, buono e bello
Ma di quell’altro me
Non è rimasto nulla
Né di buono né di bello
Finisce con queste strofa la canzone. I pakkolam usciranno di scena uno per volta, spingendosi fuori l’uno con l’altro. L’ultimo resta al centro della scena e si lascia cadere. Cadrà per terra, disteso, agonizzante. Sforzandosi punterà la testa verso il centro del rama. Gli altri torneranno, dopo aver preso un vecchio sacco o una coperta. La bagneranno con dell’acqua e lo ricopriranno. Così coloreranno la pelle del cervo.
Quando avranno finito usciranno e con quella stessa coperta picchieranno gli spettatori dicendo che stanno ancora colorando la pelle del cervo . Questo sarà l’ultimo gesto, non ci sarà nient’altro. Lì finisce la caccia.
RITO DI PURIFICAZIONE NELL’ACQUA
ZUNI
Quella che segue è la traduzione di una canzone, facente parte di una serie, che accompagna un’importante rito religioso degli Zuni (uno dei gruppi indiani dei Pueblo del New Mexico). La canzone appartiene alla Società del Grande Fuoco (società di uomini e donne che hanno il compito di curare). I riti poetici o narrazioni sacre degli Zuni, generalmente, sono organizzati entro alcuni gruppi principali fondati sulle basi di componenti astronomiche temporali (come l’annuario e il giornaliero viaggio del sole, le ricorrenze delle fasi lunari, eccetera). Si può notare come le varie sessioni della serie di canzoni siano determinate da frasi che si riferiscono ad eventi di tempo o ad elementi direzionali. Ogni direzione è relazionata ad un particolare bestia-divinità e colore; uno schema cosmologico che include i sei monaci della pioggia delle sei direzioni, sei venti-porta-pioggia, sei specie di uccelli, sei specie di alberi, e così proseguendo in un “infinito” ciclo di diversi elementi in relazione fra loro. Le sei bestie-divinità, nella mitologia Zuni, fanno la guardia al mondo. Essi sono: il Leone di Montagna Giallo dal Nord; l’Orso Blu dall’Ovest; il Tasso Rosso dal Sud; il Lupo Bianco dall’Est; l’Aquila Splendente o Multicolore dallo Zenit; la Talpa Nera del Nadir.
RITO DI PURIFICAZIONE NELL’ACQUA
Silenziosamente dovrei posare la mia coppa di conchiglia bianca.
Sono trascorsi abbastanza giorni
da quando Nostra Madre la Luna,
lì dall’Ovest,
appariva ancora piccola;
ora, lì dall’Est,
piena sopra l’orizzonte,
muta i suoi giorni in esseri finiti.
Nostri emergenti bambini,
quelli che aspirano ad invecchiare,
portate la sacra farina di granturco,
portate la conchiglia,
lì,
pregando,
faremo in modo che le vostre strade proseguano.
A coloro a cui è stato attribuito il mondo
dal principio dei tempi:
le selve,
le foreste,
lì
c’incontriamo.
Ai piedi
dei Fortunati*,
volgendoci nelle direzioni sacre,
dalle impronte delle nostre dita
offriamo:
sacra farina di granturco,
conchiglia.
*Tutti gli esseri soprannaturali.
Uniamoci
alle strade sacre dei Fortunati
che tirano i germogli
attraendoli,
che quietamente stanno lì
reggendo le loro vecchiaie,
reggendo le loro strade finite.
Uniamoci
alle strade sacre dei Padri della luce del giorno,
delle nostre madri,
dei nostri bambini,
nella camera dell’acqua che risana.
Sono passati abbastanza giorni
da quando
gli indovini,
con noi bambini,
hanno vissuto i loro giorni sulla terra.
Ora, in questo stesso giorno
per i monaci,
per le loro cerimonie,
abbiamo preparato i bastoni delle preghiere.
Quando Nostro Padre il Sole
sta andando nel posto sacro del governo
per sedersi,
quando rimane ancora un po’ di spazio,
ancora prima che raggiunga il sacro lato sinistro del potere,
ai Nostri Padri
offriamo i bastoni delle preghiere,
nelle nostre case
portiamo le strade sacre.
Lì,
da tutte le direzioni,
porteremo fuori le sacre strade dei Nostri Padri
e degli indovini,
senza tralasciare nessuno.
Nostri Padri.
che avete completato le vostre strade di cumuli di nuvole,
che avete espanso la vostra coperta di vapore,
che avete allungato le strade sacre della vita,
che avete eretto archi di arcobaleni colorati,
che avete lanciato le vostre frecce di fulmini,
dovrei sedermi silenziosamente.
Voi,
Nostri Padri,
lì
arriverete da tutte le direzioni.
Dal NORD,
i monaci della pioggia,
faranno procedere le loro strade sacre
portando le acque che risanano.
Quattro volte,
faranno entrare le loro strade sacre
lì,
dove sta la mia coppa di conchiglia bianca.
Dall’OVEST,
i monaci della pioggia,
faranno procedere le loro strade sacre
portando le acque che risanano.
Quattro volte,
faranno entrare le loro strade sacre
lì,
dove sta la mia coppa di conchiglia bianca.
Dal SUD,
i monaci della pioggia,
faranno procedere le loro strade sacre
portando le acque che risanano.
Quattro volte,
faranno entrare le loro strade sacre
lì,
dove sta la mia coppa di conchiglia bianca.
Dall’EST,
i monaci della pioggia,
faranno procedere le loro strade sacre
portando le acque che risanano.
Quattro volte,
faranno entrare le loro strade sacre
lì,
dove sta la mia coppa di conchiglia bianca.
Dal SOPRA,
i monaci della pioggia,
faranno procedere le loro strade sacre
portando le acque che risanano.
Quattro volte,
faranno entrare le loro strade sacre
lì,
dove sta la mia coppa di conchiglia bianca.
Dal SOTTO,
i monaci della pioggia,
faranno procedere le loro strade sacre
portando le acque che risanano.
Quattro volte,
faranno entrare le loro strade sacre
lì,
dove sta la mia coppa di conchiglia bianca.
Quando vi sarete seduti
silenziosamente,
i nostri bambini
berranno
le vostre acque che risanano.
Le loro strade sacre raggiungeranno
il lago di sotto,
e allora anche le loro strade saranno finite.
Ma ancora di più,
dal NORD,
tu che sei mio padre,
LEONE DI MONTAGNA,
colui che completa le mie strade,
tu che sei il mio monaco;
portando le tue medicine
farai arrivare le tue strade sacre.
Quattro volte,
vegliando sul mio emergere,
farai entrare la tua strada sacra
dove sta la mia coppa di conchiglia bianca.
Quando vi sarete seduti
silenziosamente,
saremo una sola persona.
Ma ancora di più,
dall’OVEST,
tu che sei mio padre,
ORSO,
colui che completa le mie strade,
tu che sei il mio monaco;
portando le tue medicine
farai arrivare le tue strade sacre.
Quattro volte,
vegliando sul mio emergere,
farai entrare la tua strada sacra
dove sta la mia coppa di conchiglia bianca.
Quando vi sarete seduti
silenziosamente,
saremo una sola persona.
Ma ancora di più,
dal SUD,
tu che sei mio padre,
TASSO,
colui che completa le mie strade,
tu che sei il mio monaco;
portando le tue medicine,
farai arrivare le tue strade sacre.
Quattro volte,
vegliando sul mio emergere,
farai entrare la tua strada sacra
dove sta la mia coppa di conchiglia bianca.
Quando vi sarete seduti
silenziosamente,
saremo una sola persona.
Ma ancora di più,
dall’ EST,
tu che sei mio padre,
LUPO,
colui che completa le mie strade,
tu che sei il mio monaco;
portando le tue medicine,
farai arrivare le tue strade sacre.
Quattro volte,
vegliando sul mio emergere,
farai entrare la tua strada sacra
dove sta la mia coppa di conchiglia bianca.
Quando vi sarete seduti
silenziosamente,
saremo una sola persona.
Ma ancora di più,
dal SOPRA,
tu che sei mio padre,
AQUILA,
colui che completa le mie strade,
tu che sei il mio monaco;
portando le tue medicine,
farai arrivare le tue strade sacre.
Quattro volte,
vegliando sul mio emergere,
farai entrare la tua strada sacra
dove sta la mia coppa di conchiglia bianca.
Quando vi sarete seduti
silenziosamente,
saremo una sola persona.
Ma ancora di più,
dal SOTTO,
tu che sei mio padre,
TALPA,
colui che completa le mie strade,
tu che sei il mio monaco;
portando le tue medicine,
farai arrivare le tue strade sacre.
Quattro volte,
vegliando sul mio emergere,
farai entrare la tua strada sacra
dove sta la mia coppa di conchiglia bianca.
Quando vi sarete seduti
silenziosamente,
saremo una sola persona.
E più ancora
dal NORD,
montagne muscose,
vette delle montagne,
pendii a picco,
dirupi senza fondo,
voi che reggete il mondo;
antica pietra GIALLA
porta qui la tua strada sacra.
Quattro volte,
farai entrare la tua strada sacra
dove sta la mia coppa di conchiglia bianca.
Quando vi sarete seduti silenziosamente,
i nostri bambini
berranno
le vostre acque che risanano.
Le loro strade sacre raggiungeranno
il lago di sotto,
e le loro strade saranno finite.
E più ancora
dall’OVEST,
montagne muscose,
vette delle montagne,
pendii a picco,
dirupi senza fondo,
voi che reggete il mondo;
antica pietra BLU
porta qui la tua strada sacra.
Quattro volte,
farai entrare la tua strada sacra
dove sta la mia coppa di conchiglia bianca.
Quando vi sarete seduti silenziosamente,
i nostri bambini
berranno
le vostre acque che risanano.
Le loro strade sacre raggiungeranno
il lago di sotto,
e le loro strade saranno finite.
E più ancora
dal SUD,
montagne muscose,
vette delle montagne,
pendii a picco,
dirupi senza fondo,
voi che reggete il mondo;
antica pietra ROSSA
porta qui la tua strada sacra.
Quattro volte,
farai entrare la tua strada sacra
dove sta la mia coppa di conchiglia bianca.
Quando vi sarete seduti silenziosamente,
i nostri bambini
berranno
le vostre acque che risanano.
Le loro strade sacre raggiungeranno
il lago di sotto,
e le loro strade saranno finite.
E più ancora
dall’EST,
montagne muscose,
vette delle montagne,
pendii a picco,
dirupi senza fondo,
voi che reggete il mondo;
antica pietra BIANCA
porta qui la tua strada sacra.
Quattro volte,
farai entrare la tua strada sacra
dove sta la mia coppa di conchiglia bianca.
Quando vi sarete seduti silenziosamente,
i nostri bambini
berranno
le vostre acque che risanano.
Le loro strade sacre raggiungeranno
il lago di sotto,
e le loro strade saranno finite.
E più ancora
da SOPRA,
montagne muscose,
vette delle montagne,
pendii a picco,
dirupi senza fondo,
voi che reggete il mondo;
antica pietra MULTICOLORE,
porta qui la tua strada sacra.
Quattro volte,
farai entrare la tua strada sacra
dove sta la mia coppa di conchiglia bianca.
Quando vi sarete seduti silenziosamente,
i nostri bambini
berranno
le vostre acque che risanano.
Le loro strade sacre raggiungeranno
il lago di sotto,
e le loro strade saranno finite.
E più ancora
da SOTTO,
montagne muscose,
vette delle montagne,
pendii a picco,
dirupi senza fondo,
voi che reggete il mondo;
antica pietra NERA,
porta qui la tua strada sacra.
Quattro volte,
farai entrare la tua strada sacra
dove sta la mia coppa di conchiglia bianca.
Quando vi sarete seduti silenziosamente,
i nostri bambini
berranno
le vostre acque che risanano.
Le loro strade sacre raggiungeranno
il lago di sotto,
e le loro strade saranno finite.
NANABUSH SCIUPA IL POTERE RICEVUTO DALLA PUZZOLA
OJIBWE
La narrativa Ojibwe, come tutte le letterature orali, era importante nella trasmissione e nel consolidamento dei valori tradizionali. L’arte verbale degli Ojibwe si distingue in due categorie: la prima comprende notizie, aneddoti e storie di eventi importanti. Storie che spaziano dagli avvenimenti accaduti nella vita di tutti i giorni ad esperienze molto più eccezionali che volgono verso il leggendario. La seconda categoria della narrativa involge i miti Ojibwe: storie sacre sui manitok (altra forma di “potenti” esseri umani) e sui morti. Le seconde sono più classiche e formali delle prime. Il tempo per la loro narrazione era ristretto all’inverno quando gli Ojibwe, nelle loro piccole unità familiari, cacciavano per procurarsi il cibo. Raccontavano le loro tradizioni in inverno perché i manitok vivono sott’acqua e, nella stagione fredda, essendo ibernati non possono sentire. Il grosso di questa seconda categoria di storie racconta le tribolazioni di Nanabush (o Nanabozho). Una metà di questo materiale lo descrive come un sapiente eroe, l’altra metà nella ruolo dell’imbroglione. Da eroe ha creato il mondo in cui viviamo con tutti i suoi modelli primordiali. I miti della creazione contemplano molte gesta di Nanabush: dalla sua stessa nascita a quando, dopo il diluvio universale, ha creato il mondo presente. C’è una relazione d’intima identificazione fra le gesta leggendarie di Nanabush, che confermano la loro natura di cacciatori, e gli Ojibwe. Nanabush intercede fra gli uomini e i manitok; serve come ideale modello da imitare; inventa esempi per la cultura utilitarista; ha grandi capacità di sussistenza; ha scoperto il riso; ha raccontato agli uomini come fare le medicine con le piante che guariscono. Nella veste d’imbroglione squilibrato, stregone e manipolatore di parenti, era un esempio di comportamento da evitare. Un modo di fare contrario ad ogni regola della società Ojibwe e che, quindi, propone una forma di educazione negativa per tutte le età. Le sue azioni, come i patimenti conseguenti alla disobbedienza, servono da monito per un più appropriato comportamento.
NANABUSH SCIUPA IL POTERE RICEVUTO DALLA PUZZOLA
Come al solito se ne andava in giro a piedi.
Fino a che,
arrivato sul ghiacciaio di un lago,
vide un abete.
Allora pensò:
“Non ci sono dubbi,
qualcuno vive lì.”
Continuò il cammino.
Incontrò un buco per attingere l’acqua sul ghiaccio;
un buco fatto con le budella di alce.
L’incavo era davvero molto grande.
Lo avrebbe voluto per se.
Ci allungò le mani sopra.
Ma udì la voce di qualcuno che disse:
Ehi, Nanabush! Metti giù le mani.
Se lo prendi, ce ne servirà un altro!
Lo lasciò stare.
“Vieni qui”,
disse.
E lui risalì dal lago.
Gli offrirono del cibo;
lui ne mangiò.
Avrebbe voluto lasciarsene un po’.
“Mangia tutto quello che ti ho preparato”,
disse.
E lui lo mangiò tutto.
S’accorse di quanto fosse grosso quello che gli parlava.
“Nanabush, sembri molto affamato”.
“No”, rispose.
“No? Nanabush, tu sei alla fame!
Si vede che hai tanta fame.
Lo dico per te, per farti avere una grazia”, disse.
“Si, mio giovane fratello, ho davvero fame”, rispose.
“Bene – gli fu detto – allora t’insegnerò quello che dovresti fare”.
Gli fu dato un piccolo flauto.
“E’ questo – disse – quello che dovrai usare.
Quando ritornerai a casa,
la tua anziana donna dovrà costruire una lunga casa;
dovrà essere una casa molto lunga.
Ti do anche questo, per quando sarà finita,
con questo ucciderai quelli che entrano in casa.
Fai esattamente come t’ho insegnato”; gli fu detto.
Era la Grande Puzzola che stava parlando.
“Ti darò la possibilità di farne uso per due volte –
disse – di questa cosa che userai per ucciderli.
Ora inginocchiati e appoggiati sulle mani”, disse a Nanabush.
Con grande consapevolezza si piegò su mani e ginocchia.
Si posizionò in faccia al suo di dietro,
e fu coperto da una grande puzza.
Questo è quello che gli fece.
E, questo, è quello che gli disse:
“Per favore, Nanabush, fai attenzione –
disse – o potresti far male ai tuoi bambini”; gli fu detto.
“Quando tornerai a casa dovrai rigorosamente fare così:
Soffierai una melodia sul tuo flauto,
alcune alci andranno in casa tua.
N’entreranno abbastanza, poi faranno così:
cammineranno intorno dentro la tua lunga casa.
Dopo, quando verrà fuori il capo branco,
tu gli farai una puzza per ricacciarlo dentro.
Così, anche tutte quelle dentro, moriranno.
E tu avrai il cibo per svernare.
Se ne vorrai ancora, quando le avrai mangiate tutte,
potrai soffiare un’altra volta sul flauto.
Così potrai attraversare l’inverno, senza aver mai più fame.
Questo è tutto quello che dovevo insegnarti”; gli fu detto.
Nanabush si rimise sulla sua strada.
Era davvero molto fiero.
Ora, nel momento che stava camminando per la sua strada,
vide un albero davvero grande.
“Chissà se il mio giovane fratello m’ha detto la verità –
pensò – quasi, quasi… gli faccio una puzza!”
Pensò Nanabush.
E davvero fece una puzza sul grande albero;
che marcì completamente.
“Sembra che il mio giovane fratello m’abbia detto la verità!” pensò.
In un momento mentre ancora una volta camminava per la sua strada,
vide una grande roccia oltre il versante opposto delle colline.
“Eppure – pensò ancora
– io continuo a chiedermi se mi ha detto la verità”.
“Quasi, quasi… farei un’altra prova sulla roccia”, pensò.
E davvero fece ancora una puzza.
Quando guardò, di quella grande roccia, non era rimasto niente.
Colui che aveva avuto pietà di lui
sentì voci a proposito di quello che lui stava facendo.
“Com’è stupido, da parte di Nanabush, non fare attenzione;
sta portando la rovina sui suoi bambini.”
Nanabush si drizzò in piedi.
Andò là dove c’era la roccia.
Riuscì a trovare dei pezzetti di roccia sparsi qua e là
solo dopo una persistente ricerca.
“Che il mio giovane fratello abbia detto la verità –
pensò Nanabush – è un fatto concreto!”
Ritornato a casa disse:
“Vecchia donna, sono stato benedetto;” disse alla sua vecchia donna.
Poi continuò: “Domani – disse a sua moglie
– costruiremo una casa molto lunga!”
Costruirono una casa, davvero, molto lunga.
Alla fine, disse alla sua vecchia donna:
“Siediti!”
E rimasero seduti.
Soffiò una melodia sul flauto.
Vide alcune alci correre verso la casa, per davvero.
“Sono certa, non ho alcun dubbio – gli disse la moglie
– che non hai obbedito alle istruzioni”.
Le alci entrarono in casa, per davvero.
Il capo branco uscì di casa.
Nanabush tentò una puzza;
ma non era più capace di fare le puzze.
Ora aveva fatto arrabbiare la donna, per davvero.
“Non fai mai attenzione
né a cosa ti viene detto e né a chi te lo ha detto!”
gli disse la sua vecchia donna.
Tutto quello che poteva fare era aprire e chiudere le chiappe.
Ma non poteva fare puzze.
Fece arrabbiare sua moglie, l’aveva fatta arrabbiare per davvero.
Tutte le alci riuscirono.
Per davvero aveva fatto arrabbiare sua moglie.
Le alci ripresero il loro cammino fuori dalla casa.
La vecchia donna riuscì a colpire l’ultimo che usciva.
Ruppe la gamba ad un giovane alce.
“Sei proprio un babbeo!
Ma non t’hanno detto come avresti dovuto fare?”
“Veramente si! Mi era stato dato il potere di uccidere
tutte le prede che entravano nella casa per due volte… o no?”
Per i due miserabili non c’era nulla da mangiare.
Lei aveva rovesciato le budella dell’alce.
Ci foderò il buco per attingere l’acqua.
Lui sapeva che loro avevano un gran bisogno di cibo,
Lui che, invano, s’era preso pietà per Nanabush.
“Per questo andrò da lui”, fu il pensiero che da Lui arrivò a Nanabush.
Questa volta fu la Grande Puzzola a partire per davvero.
In breve arrivò fino a dove stavano loro.
“Che cosa t’è successo;”
Gli disse.
Il budello dell’alce foderava il buco sul lago dove attingevano l’acqua.
“Ma come si può compiere un’idiozia così, Nanabush!”
E rise di lui.
Questo è quello che disse a Nanabush:
“Cos’è successo, Nanabush?”
chiese la Puzzola.
“Dopo averti lasciato, mio giovane fratello, quando ero circa a metà strada,
feci puzze su un grande albero e su una grande roccia.
Si l’ho fatto ma ho provato pietà”.
“Allora – disse – avrò ancora pietà di te.”
Poi disse: “Sono venuto fin qui per benedirti ancora.”
E, Nanabush, fu ancora ricoperto di puzza.
“Ora non rifarlo un’altra volta!”
Gli diede quello che avrebbe potuto usare ancora due volte.
E si rimise sulla strada che lo riportava a casa.
La moglie lo prevenne dal far puzze.
Seriamente.
Al tempo giusto lui soffiò una canzone sul flauto.
Vide le alci arrivare ed entrare nella lunga casa ancora una volta.
Poi, quando questi tento d’uscire, fece una puzza sul capo branco.
Stavolta morirono tutti.
Guardarono dentro:
il posto dove vivevano era pieno delle alci ch’avevano ucciso.
Ora, le miserabili creature, avevano tutto il cibo di cui abbisognavano.
La moglie disse.
“Per favore, cerca di fare attenzione e di non buttare i resti,
se non vuoi affamare i bambini.”
Ora, con le alci trattate per l’uso,
sentivano di poter attraversare l’inverno, tranquillamente.
“E’ abbastanza probabile che potremo attraversare l’inverno;” disse alla moglie.
“E’ abbastanza probabile;” si sentì dire.
“Siamo stati veramente benedetti;”
disse la moglie al marito.
E questo è tutto quello che so.
WAKINYAN E WAKINYAN WICAKTEP TUONO E QUELLI UCCISI DA TUONO
LAKOTA
Gli hejoka avevano il potere, se lo desideravano, di deviare i distruttivi fulmini che tanto frequentemente cadevano sulle Grandi Pianure. Lenivano il male, ma lo potevano anche acuire. Gli heyoka giocavano un ruolo molto importante all’interno del cerchio dei villaggi lakota. Il loro clownesco comportamento divertiva la gente e, allo stesso momento, portava all’attenzione i comportamenti devianti, le azioni e i fatti non accettabili dalla società. Facendo ridere, con le loro mosse grottesche, provvedevano al necessario sollievo del popolo dal rigido codice del conformismo sociale lakota; codice morale che gli heyoka erano liberi di ridicolizzare. Sollevando l’atmosfera nei momenti più duri erano capaci di mandare segnali di ammonimento quando la società si faceva compiacente. Mettevano all’indice il potenziale pericolo e, sempre con le burla, annunciavano le conseguenze che derivano dalla non vigilanza; mettevano in allerta il villaggio sulle potenzialità negative dell’azzardata situazione.
Racconto descrittivo delle tradizioni della tribù Lakota
Quello che la gente comune dice degli Uomini Tuono e degli Heyoka
WAKINYAN E WAKINYAN WICAKTEP
TUONO E QUELLI UCCISI DA TUONO
Si dice che gli Uomini Tuono vivano ad Ovest perché è da li che vengono. Sono considerati i guerrieri del Mistero Finale. Le Great Mountains sono la loro casa. Uccidono chiunque non rispetti le loro leggi. Degli Uomini Tuono, si dice, che vivano alla maniera della gente comune. Ma in più, viaggiano in tutto il mondo, lo nutrono, viaggiando causano la caduta delle piogge. Fanno si che la terra cresca tante cose straordinariamente belle e, così facendo, aiutano gli animali e gli uomini a prosperare in abbondanza. Lì, dove la terra ha subito un danno, loro arrivano a ripulirla con la pioggia, lavando via tutto ciò che ha causato il danno.
Cielo, terra e acqua sono gli esseri che gli Uomini Tuono stimano su tutti. Quello, fra tutti i quadrupedi della terra, è il cavallo; per quanto anche tutti gli altri quadrupedi, per loro, sono importanti. Quelli fra gli alati del cielo sono: il gabbiano, il falco, l’allodola e le rondini. Fra gli esseri acquatici quelli più apprezzati sono la rana e il tritone perché arrivano giù sulla terra con le piogge.
Per quanto, animali non esclusi, possano essere tante le ragioni che mandano i fulmini a folgorare le cose, si dice che se si impegna a celebrare certi riti, quando una persona sogna degli Uomini Tuono, solo il fallimento nel compimento di quegli obblighi comporterà la sua morte tramite fulmine. Quelli che sono stati uccisi dai guerrieri degli Uomini Tuono, si dice, che furono colpiti in cima alla testa. Quello colpito dal fulmine aveva i capelli in cima alla testa arruffati come una palla. E’ per questo che gli heyoka con i capelli in cima alla testa ci fanno un nodo.
Se qualcuno non fa come gli è stato insegnato nella visione o nel sogno arrivato dagli Uomini Tuono, si dice, che un fulmine lo farà per lui. Viaggerà attraverso il suo corpo arricciandogli le membra, segnandolo nel modo che avrebbe dovuto dipingere se stesso; per questo, coloro che sognano i tuoni, hanno l’usanza di dipingersi il corpo e le membra in quella maniera.
Si dice che i fulmini tempestino il palco della sepoltura, quando una persona uccisa dai fulmini viene messa sul palco della sepoltura. La persona colpita dal fulmine veniva portata nel dominio degli Uomini Tuono per vivere lì con loro. Quando vengono gli esseri tuono da Ovest, perlomeno così si dice, alcuni fra quelli che arrivano hanno il permesso di scagliare le folgori che uccidono. Gli esseri tuono dicevano a quello da folgorare: “Silenziosamente e delicatamente (nel sogno) andrai dalla tua gente. Avrai compassione di loro perché pensano di essere nel giusto ma, la sapienza che gli uomini credono di avere, tale non è – gli dicono – ad ognuno di loro tu svelerai la verità.” Gli altri heyoka pregheranno per lui e lo onoreranno per tutto ciò che vogliono o abbisognano, si dice.
Un uomo che sognò i tuoni raccontò del suo sogno: “Ho sognato di stare nel paese degli esseri tuono. Un’allodola venne da me proveniente da ovest e saltai in aria come un saetta. Quando ripresi conoscenza ero nel grande villaggio degli esseri tuono. Erano gente comune che aveva dipinto il proprio corpo di grigio bianchiccio. Gli arti erano dipinti con strisce a zigzag rosse, più o meno larghe come una mano.”
Mi dissero: “Da ragazzo, così come da uomo o da vecchio, si sempre lucidamente conscio che i riti che vedrai saranno esattamente come quelli che rivelerai alla tua gente.” Un heyoka, impaziente di eseguire il rito del prelievo dal bricco bollente, si rivolse a quello che aveva viaggiato nella terra degli esseri tuono dicendogli: “Ho avuto una visione in sogno. Da quel momento sento urla di guerrieri ogni volta che arrivano gli esseri tuono.” A questo, quello che aveva visitato gli esseri tuono, replicò: “Ti stanno chiedendo di prelevare dal bricco alla maniera degli heyoka. Ora potrai mostrare alla gente come eseguire nel modo giusto questo rito.” In quel momento lo heyoka fu pronto per eseguire il rito.
Fu eretto nel centro del villaggio, fatto di vecchie e affumicate pelli di scarto, un piccolo tepee. Il tepee fu circondato dal gruppo di heyoka che già avevano rivelato i loro sogni avuti dagli esseri tuono. Non usarono tante pertiche come si fa per un normale tepee, ma ne usarono due per reggere il passaggio del fumo. Poi invitarono ad entrare tutti gli altri seguaci della Società Heyoka che già avevano eseguito i loro riti. Gli heyoka scelsero uno fra di loro. Il nuovo heyoka, quello che doveva eseguire il rito per la prima volta, fu toccato dal prescelto della Società Heyoka per prendere coscienza del nascente potere. Lo heyoka prescelto, mentre dipingeva quello nuovo, spiegava come lo stava dipingendo. Gli disse, anche, che avrebbe dovuto cavalcare un cavallo multicolore. A loro volta, tutti gli altri heyoka, si unirono per finirlo di dipingere. Il corpo fu dipinto di grigio bianchiccio; le membra con strisce zigzagate di colore rossiccio, come i fulmini. I capelli furono tirati davanti, arrotolati e legati in modo che pendolassero sulla fronte. Una pianta di Psoralea (ticanica hu) fu legata al nodo di capelli penzolante.
A quel punto, si vestirono anche gli altri heyoka. Con vecchie pelli di tipi di scarto, a cui praticarono fori molto imprecisi, fecero dei gambali. E li indossarono come gambali. Con le stesse pelli, pure forate, fecero le maglie che indossarono. Il pericardio del bufalo, che gli copriva anche la faccia, lo usarono come copricapo. Sulla cima del cappuccio ci fecero un buco, dal quale penzolava una treccia. Prese due pezze, di vecchie pelli di daino di tepee di scarto, ci sagomarono due orecchini; grandi, circa, come il palmo di una mano. E li appesero agli orecchi. Dietro la testa gli penzolava una fila di piume di ali di corvo fissate su una striscia di pelle grezza imperlata alla base. Un arco fatto alla svelta, uno scudo e due o tre frecce costituivano il resto del costume. Questi archi non erano affatto funzionali, perché fatti alla svelta e senza cura.
Ora, abbigliato nello stile che ho detto, lo heyoka stava per adempiere ai suoi obblighi. Era dipinto di grigio bianchiccio e fu messo su un cavallo multicolore con una lancia in mano.
Cantò una canzone heyoka che diceva così:
Viene una nube tonda
Viene una nube tonda
M’ avvio sul sentiero sacro con un voto per me stesso
Viene una nube tonda
M’ avvio sul sentiero sacro con un voto per me stesso
Poi infilò una lingua di bufalo con la sua lancia e la tirò fuori dal bricco.
Tutti gli heyoka, allora, si avvicinarono al bricco ed estrassero pezzi di bufalo con le mani nude. Poi si dispersero tra la folla portando pezzi di lingua di bufalo dovunque ci fossero seduti uomini di mezza età o più vecchi, ed offrendoglieli. Gli uomini, condividendo l’offerta di cibo, rispondevano: “Haye”. Ognuno rese omaggio al capo degli heyoka ed al nuovo heyoka. Dopo, per la gioia della folla, gli heyoka si esibirono in molte azioni comiche e buffe (com’è nella loro natura). Il nuovo heyoka aveva onorato i suoi obblighi verso gli esseri tuono, e la gente era felice per lui.
Un giorno, si dice, che un altro uomo - che aveva ricevuto una visione – dopo essersi vestito secondo l’usanza heyoka, andò in giro per il villaggio facendo scherzi heyoka. I capelli scendevano sciolti, e su un solitario nodo di capelli aveva legato una fila di piume di ali di cervo. Aveva il torso dipinto di rosso e, sulle membra, aveva dipinto delle strisce a zigzag vermiglione che rappresentavano gli Uomini Tuono. Su piedi e mani aveva tracciato disegni forcuti. Indossò la sua veste di bufalo – con il pelo rivolto fuori – annodata all’altezza della gola. Portava un’imitazione d’arco ed alcune frecce storte insieme ad un tamburo colorato di rosso. Mentre bussava sul tamburo cantava questa canzone:
Il potere del sole fa battere il mio cuore
Torceva il corpo da una parte all’altra, mentre danzava in giro per il campo guardando a destra e manca. Ogni tanto soffiava s’un flauto ricavato da un osso d’ala d’aquila. Non faceva il prelievo dal bricco perché aveva ancora paura degli esseri tuono. Comunque, questa volta nel rispetto del rito, prelevò dal bricco. Lo fece una seconda volta ed ancora una terza. Da quel momento non ebbe più paura degli esseri tuono e si considerò un heyoka completo.
Gli heyoka erano chiamati i “Non Grandi Fratelli”*. Parlavano ed agivano al contrario. Formarono una Società Heyoka e scelsero un giorno per celebrare la loro festa. Compievano i loro riti e le loro cerimonie cantando le canzoni heyoka alla gente. Circondavano il villaggio eseguendo le loro danze, cantando le loro canzoni, percuotendo il tamburo mentre cantavano. Non ballavano nel modo tradizionale ma saltando su e giù.
* Non Grandi Fratelli (Ciyeku Sni)
I membri della Società Heyoka potevano evocare tanto la parte luminosa che la parte scura del Mistero Finale (Taku Wakan) e, per questo, dai giovani del cerchio del villaggio, non erano considerati modelli da imitare. I membri delle società guerriere erano i Grandi Fratelli (Ciyekupi) dei giovani che mostravano capacità da combattenti. I guerrieri più famosi promettevano ai giovani che gli stavano più dietro d’insegnargli l’arte della guerra. Nello stesso modo, i giovani che promettevano capacità taumaturgiche, seguivano sempre gli uomini santi del villaggio.
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